11. Dante e Dino Compagni

Un confronto tra la Commedia di Dante e la Cronica di Dino Compagni non è proponibile data la diversità strutturale delle opere, una di altissima poesia, l’altra di grande capacità di narrazione storica. Tuttavia la prossimità biografica e di esperienze istituzionali dei due, il comune ancoraggio alle vicende di Firenze e importanti analogie nell’atteggiamento politico  suggeriscono alcuni elementi di raffronto e di reciproca integrazione non inutili. Poiché della vita di Dante ho già redatto una breve sintesi (Capitoli 4 e 5), occorre adesso dire qualcosa su Dino Compagni. Era di circa vent’anni più anziano di Dante, si iscrisse nel 1267 all’arte di Por Santa Maria, della quale fu console sei volte, 1282-1299. Esercitava la mercatura, su un medio livello di capitale ed impegno (ma non ne sappiamo molto), si associò alla confraternita della Madonna di Or San Michele e ne fu capitano nel 1298. In una sua poesia di contenuto morale indirizzata a sovrani, cavalieri e operatori di diversi mestieri (la cosiddetta Canzone del pregio) espresse in versi molto noti i doveri morali del mercante: “La chiesa usare, per Dio donare (…) ed usura vietar torre per tutto”, cioè non prendere mai a prestito). Ebbe ripetutamente cariche di governo (spesso consigliere, due volte priore e tra i primi gonfalonieri di giustizia istituiti dagli Ordinamenti di Giano della Bella dei quali ho detto ne1 Capitolo 10). Convinto aderente della Parte Bianca, ne subì dagli inizi del Trecento la perdita di potere (qui, Capitolo 4), non sofferse persecuzioni ma non ricoperse più uffici fino alla morte, occorsa il 26 febbraio 1324, cioè due anni e mezzo dopo la morte di Dante. A differenza di Dante, dunque, Dino non vide la triste fine nell’estate del 1313 dell’imperatore Enrico VII nel quale aveva riposto tante speranze e con le cui vicende nell’anno che precedette la morte termina la Cronica.

     La Cronica comprende tre libri, ciascuno di alcune decine di capitoli (che io indicherò con §, dunque le mie citazioni saranno del tipo: II, §88). Dopo una breve e importante introduzione e un altrettanto breve profilo di Firenze e delle sue disgrazie, determinate secondo Dino dagli odii interfamiliari e dalle rivalità per ottenere posti di governo (“gara d’ufici”), la narrazione storica inizia con la faida del 1216 di cui ho parlato nel Capitolo 9, e alla quale Dino fa indebitamente risalire il conflitto tra Guelfi e Ghibellini. Poi il racconto salta a piè pari al 1280. Dunque tralascia la gran parte della vicenda duecentesca, incluse le grandi battaglie, l’istituzione fiorentina del Popolo e tante altre cose. Non è da pensare a una lacuna di tradizione manoscritta. Dino Compagni era interessato solo alle cose a lui contemporanee, ciò che oltre tutto risponde al suo parametro di “autopsia”, cioè di conoscenza personale e diretta. Se il “contemporaneismo” e l’“autopsia” come principale criterio di verità sono comuni alla gran parte della storiografia medievale, in Dino Compagni raggiungono però vertici insuperati. Così la prima notizia che la Cronica offre dopo la pace del cardinal Latino del 1280 è quella di un intervento pacificatorio dell’autore, condotto insieme ad altri cinque “popolari” quando egli era ancora giovane. Segue la memoria dell’istituzione del Priorato nel 1282 e poi degli altri momenti dell’ascesa “popolare”, culminati con gli Ordinamenti di Giano della Bella del 1293.

     Dino ricorda come si muovesse subito contro Giano una serie di complotti, assisi su una accusa di “tirannia” mossa contro di lui (I, §§88 e 90) e sfociati infine nella condanna di Giano all’esilio nel marzo del 1295. Ostili a Giano, le grandi famiglie fiorentine conobbero in questo stesso periodo una divisione, tra il clan dei Cerchi e quello dei Donati, che si sarebbe protratta fino all’autunno del 1301. Dino narra reiteratamente dei suoi tentativi di pacificazione, anche nel ruolo di priore che ricoperse nel giugno del 1300 (su tutto I, §§96, 110-114 e 127-128). In questo torno di tempo la divisione tra famiglie era evoluta verso la divisione tra Guelfi Bianchi e Guelfi Neri (qui, Capitolo 4), nomi mutuati da una scissione nel Comune di Pistoia di cui Dino parla adesso(I, §132) ma che risaliva agli anni Ottanta del Duecento. Ancora nel collegio dei priori nell’ottobre del 1301, Dino avrebbe tenuto un arioso discorso pacificatorio in San Giovanni (II, §§ 31-32), poi avrebbe cominciato ad essere oggetto di accuse per presunte violazioni degli Ordinamenti di Giustizia, si sarebbe difeso, sarebbe stato presente e attivo nei dibattiti politici (II, §§44-46, 52-54, 58-59, 73-74) per indursi infine a lasciare il Priorato mentre la città era devastata da violenze e incendi (II, §87).

     Al Priorato successivo, entrato nel novembre 1301, Dino imputa una serie di malefatte e il mancato risanamento della tragica situazione cittadina, ciò che gli ispira una invettiva contro alcuni cittadini puntualmente nominati. È in questa temperie, nei primi mesi del 1302, che si collocano le condanne all’esilio nelle quali venne incluso Dante: cosa che Dino ricorda, precisando che in quel momento il poeta era ambasciatore a Roma. Dino nomina ancora una cinquantina tra persone e famiglie condannate e conclude: “che furono più di uomini dc., i quali andorono stentando per lo mondo chi qua e chi là”. Elenca poi le persone e le famiglie, o parti di famiglie, alle quali rimase il potere: ne nomina una trentina, poi integra e conclude: “e a molti altri, cittadini e contadini (rimase il governo)”. Segue l’accorata condanna in blocco dei suddetti, ciascuno dei quali fu “guastatore della città”, e tutti furono mossi da odio e lotta per gli uffici (II, §§121-123).

     Mentre imperversano lotte ed episodi crudeli ad opera dei Neri (in II, §145, è vividamente descritta una pubblica esposizione, alla finestra del palazzo pubblico, di tortura e scherno), si realizza l’avvicinamento dei Guelfi Bianchi ai Ghibellini (II, §§141 e 148-149). E come da copione si realizza anche una divisione tra i Neri: Rosso della Tosa, Pazzino dei Pazzi e Geri Spini si coalizzano contro Corso Donati (II, §158). Nell’agosto del 1303 è sancito un ribandimento di quei confinati che avevano ubbidito alla consegna del confino (II, §160). Adesso la narrazione di Dino ha una delle non molte aperture su un teatro extracittadino, con la notizia dello scontro tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII in Anagni e della morte del papa, “arrabbiato”.  Ma gli interessano le reazioni in Firenze, con i Bianchi e i Ghibellini contenti per la fine del detestato Bonifacio VIII e i Neri scontenti (II, §§ 161-164).

     Si apre adesso il terzo libro della Cronica, nel quale Dino non ha più alcun ruolo se non quello di spettatore e narratore. Vede così l’aspirazione di Rosso della Tosa ad avere “la signoria, a guisa de’ signori di Lombardia” (III, §3) e la contromanovra di Corso Donati, promotore nel febbraio 1304 di una congiura cui aderiscono trentadue “tra di famiglie e popolani” (III, §§6-8). Poi il primo semestre del 1304 vede una sequenza di improbabili tentativi di pace sotto l’egida del cardinale Niccolò da Prato (III, §§17-37), ma la tragedia interna riprende presto con rinnovato vigore. I Neri promuovono un incendio, nel quale bruciano più di 1900 case: la città è sgomenta, i Cavalcanti, avversari potenti dei Neri, perdono coraggio e i Neri reggono la città “tirannescamente” (III, §51). Il loro intento è di assoggettare a Firenze, e dunque al loro clan, la città di Pistoia, alla quale è inflitto un lungo e crudele assedio per prenderla per fame. Dopo un nuovo intervento pacificatorio del cardinale Niccolò da Prato, Pistoia è infine costretta alla resa (III, §§74-97).

     Durante questi frangenti di guerra i fuorusciti fiorentini, Bianchi e ghibellini, tentarono di giuocare la carta militare, con aiuti anche di simpatizzanti esterni (Bolognesi, Romagnoli, Aretini), previa una riunione di 1200 cavalieri che si accamparono sulla via da Firenze a Bologna in un luogo detto la Lastra nel luglio del 1304 nella prospettiva di un assalto alle mura di Firenze. Una serie di incidenti, estesamente descritti da Dino, fece fallire l’impresa (III, §§54-71). Dante non vi aveva partecipato, distaccato ormai com’era dallo schieramento ghibellino e deciso a fare “parte per stesso”, come avrebbe scritto nella Commedia, rievocando anche e con deplorazione, pure in maniera allusiva, l’infelice tentativo dei fuorusciti fiorentini (Par. XVII, vv. 61-69). L’espressione impiegata in Dino per il rovesciamento di fortuna dei fuorusciti, “l’allegrezza tornò loro in pianto” (III, §63), si ritrova in un contesto diverso nel canto dantesco di Ulisse (Inf. XXVI, v. 136). È un topos antico, bene illustrato da Davide Cappi in una nota nella sua edizione della Cronica (p. 330).

     Gli insuccessi degli avversari non ispirarono ai Neri uno sforzo per una concordia interna, anzi l’“odio” (è il termine ricorrente in Dino per definire i conflitti intercittadini e interfamiliari) tra il clan di Rosso della Tosa e Corso Donati riprese e sarebbe culminato con l’uccisione di Corso, al quale Dino dedica un bel ritratto (III, §§110-125). Ma adesso incombe sui disordini fiorentini ma anche sui “tiranni” di Lombardia e di Toscana e sulle loro lotte interne (il conflitto in Milano fra Della Torre e Visconti) l’arrivo del nuovo imperatore, Enrico VII. A lui Dino dedica ripetuti elogi, narra del suo faticoso avvicinamento a Roma, intercalato da ribellioni di città e di cittadini potenti, tutte debitamente e talora crudelmente punite (III, §§132-170 e 172-175), e funestato dalla morte dell’imperatrice nell’inverno del 1311 (III, §171). Infine, dopo il trionfale ingresso nella sempre fedele Pisa nel marzo del 1312 (III, §§193-194), Enrico approda a Roma e viene incoronato (III, §§198-204).

     Ma Firenze è lontana da Roma, e conosce le continue violenze interne, non cessate per la morte accidentale di Rosso della Tosa, “nimico del popolo, amico de’ tiranni”. Rosso aveva più di 75 anni, i suoi eredi furono creati cavalieri dalla Parte dei Guelfi Neri e vennero detti “’i cavalieri del filatoio’, però che i danari che si dieron loro si toglievan alle povere femminelle che filavano a filatoio” (III, §§207-210). La narrazione del prosieguo di lotte e di uccisioni culmina nella Cronica con il riassunto delle morti dei protagonisti occorse in breve lasso di tempo: oltre a Rosso della Tosa Dino ricorda nuovamente Corso Donati, poi suo figlio Simone, Nicola dei Cerchi, Pazzino dei Pazzi, Gherardo Bordoni e Betto Brunelleschi: tutti “crudeli cittadini” (III, §§211-222). I sopravvissuti erano abbastanza numerosi da tenere in allarme un altro nefando protagonista, Geri Spini (III, §223). Ma la nube di violenza e di ingiustizia che sovrasta Firenze (“come il malfattore ha degli amici, e può moneta spendere, così è liberato dal malificio fatto”) sarà presto squarciata, scrive Dino nell’ultima pagina della Cronica, dall’arrivo di Enrico VII, che farà “prendere e rubare per mare e per terra” quegli “iniqui cittadini” (III, §§224-225).

     La Cronica fu dunque scritta poco prima della morte di Enrico VII, e Dino non ebbe modo di parlare della vigorosa ripresa ghibellina nella Toscana della seconda decade del Trecento, né sappiamo se lo avrebbe fatto. Nemmeno Dante ne avrebbe parlato, e avrebbe rivolto verso altre speranze, e fuori di Toscana, il suo “ghibellinismo”. Parlerò di tutto questo nel Capitolo che segue. Diciamo comunque che la visione “imperiale” di Dante era più ampia di quella di Dino Compagni, più estesa nel tempo, correlata alla condanna  dell’ostilità antimperiale della Chiesa di Roma, che fu “noverca” a Cesare, come ho ricordato nel Capitolo 9. Parlare dell’imperatore come di Cesare era un evidente richiamo al “date a Cesare quel che è di Cesare”, precetto evangelico non rispettato dai papi, come aveva denunziato una polemica antiromana sino dal tempo di Federico Barbarossa. In generale, comunque, l’orizzonte di tempo e di spazi della Commedia è molto più esteso rispetto all’ambito contemporaneistico e “fiorentinocentrico”  della Cronica di Dino. Detta questa banalità, occorre però rilevare alcuni elementi comuni ai due fiorentini, per poi fare un confronto delle presenze di personaggi storici nelle loro opere.

     Elemento comune è la passionalità, che si esprime in ambedue gli autori nelle invettive contro Firenze, invettive ripetute da entrambi in luoghi diversi delle rispettive opere e sempre con efficace violenza. Quanto a fatti, personaggi  ed episodi storici, ho detto che Dino ha un accenno a Dante e al suo esilio (II, §121). Dante non parla mai di Dino, come non parla di tanti altri scrittori o poeti del suo tempo (ricordo che lo stesso Dino si era cimentato, oltre che nella scrittura di storia, in opere poetiche). Un episodio storico, il “fattaccio” del 1216, è rievocato sia da Dante che da Dino, ma con indicazioni diverse quanto ai protagonisti: Dino (I, §§6-9), non nomina Mosca Lamberti e attribuisce l’iniziativa omicida e la celebre frase agli Uberti, Dante parla del fatto con riferimento alla vittima, Buondelmonte dei Buondelmonti (Par. XVI, vv. 140-144). Comune ai due autori, con modalità ovviamente diverse, è la denunzia del giudice Baldo d’Aguglione, per Dante esempio di “villano” inurbatosi (Par. XVI, v. 53) e per ambedue falsificatore di documenti, in una circostanza che Dante rievoca in maniera molto allusiva (Pg. XII, v. 105) e Dino puntualizza con cura (I, §§93-94), non senza attribuire a Baldo la qualifica di “giudice sagacissimo” (I, §93) e non senza ricordarne la diuturna presenza al potere (I, §§53 e 71; II, §111 e 145). Non opposte, ma comunque diverse declinazioni, hanno le occorrenze di Lapo Salterelli, del quale Dino ricorda la lunga attività negli uffici, l’atteggiamento altalenante, il deplorevole opportunismo e infine la condanna all’esilio contemporanea a quella di Dante (I, §§99, 119, 126; II, §§41, 81, 82, 105, 121), mentre nella Commedia l’unica occorrenza  (Par. XV, v. 128) è decisamente per un esempio negativo. I commentatori si sono poi dilatati, come da copione, nell’attribuire a Lapo le qualifiche di “faccendiere e mestatore”, nonché quella, tanto che c’erano, di uomo “di molli e lascivi costumi”. Noi per parte nostra non dubiteremo che l’uomo avesse le mani in pasta in molte paste, e spereremo che si sia goduta la vita finché poté.

     Per il resto, il paragone tra i personaggi nominati rispettivamente da Dino e da Dante ha ovviamente un senso solo per il periodo coperto dalla Cronica, 1280-1313: Dante mette in campo una folla di personaggi medievali anteriori al Duecento, per non dire delle figure dell’antichità, di quelle tratte dalla mitologia e dalle Scritture e di quelle di pura invenzione, un paesaggio del tutto estraneo a Dino. Limitandoci dunque ai personaggi danteschi che compaiono anche nella Cronica di Dino Compagni diremo che essi sono una trentina, a fronte dei circa 170 personaggi che si vedono menzionati nella Commedia, siano essi collocati nell’oltretomba o vengano comunque menzionati. Dunque in Dino abbiamo circa un sesto di occorrenze dei nomi che compaiono nella Commedia. Deve essere però tenuto nel debito conto non solo il fatto che la Cronica è tutta incentrata su Firenze mentre la Commedia spazia su vasti teatri, ma anche il fatto che Dino fa gran riferimento a gruppi familiari, mentre Dante ai fini del giudizio divino poteva indicare solo individui, non poteva mandare tutta una famiglia all’inferno o in purgatorio o in paradiso: di qui anche la grande numerosità dei nomi nella Commedia.  Tutto ciò è un po’ banale, mentre è più interessante l’operazione inversa. Cioè, quanti dei personaggi nominati con rilievo nella Cronica compaiono anche nella Commedia?

     Qui più che mai occorre la considerazione che Dino mette in campo spesso famiglie e clan familiari, mentre la Commedia è intessuta prevalentemente di individui singoli. Tanto premesso, noteremo che alcuni protagonisti importanti, e per lo più connotati negativamente, della Cronica non compaiono nel poema di Dante. È il caso di Rosso dello Strozza, (II, §34), di Geri Spini, di Pazzino dei Pazzi, di Betto Brunelleschi, tutti presenti in numerosi luoghi della Cronica, e di alcuni altri. Tutto ciò non deve suscitare meraviglia, bensì una semplice riflessione. Sia Dante sia Dino hanno compiuto una selezione molto soggettiva, e forse sono più notevoli le compresenze di persone e famiglie che non le omissioni. A nessuno dei due autori si può e si deve attingere per un who’s who della società fiorentina del Due e del Trecento. Di questa società noi conosciamo decine e centinaia di nomi di persone e famiglie, è ovvio che tante persone che pure ebbero un ruolo non secondario nella Firenze del Due e del Trecento non siano state scelte per essere ricordate in quelle due opere.

Nota. Dopo alcune eccellenti edizioni dovute ad autori illustri (Isidoro Del Lungo, Gino Luzzatto), oggi ricorriamo a Dino Compagni, Cronica. Introduzione e commento di Davide Cappi, 2013 (Classici/28. Classici italiani. Comitato scientifico: Gian Mario Anselmi, Stefano Carrai, Giorgio Inglese – coordinatore), corredata di ricche note e di un buon indice.

Autore: Paolo Cammarosano

Immagine di copertina: Tino di Camaino, Ritratto di Enrico VII, (Monumento funebre di Arrigo VII, 1313, Duomo di Pisa)