12. Le guerre di Toscana. La prima generazione del Trecento

Come ho ricordato nel capitolo precedente sulla scorta della narrazione di Dino Compagni, i primi anni del Trecento videro una serie di tentativi dei Guelfi Bianchi e dei Ghibellini fiorentini per rientrare in Firenze e riprenderne il controllo. All’infelice impresa della Lastra (1304), che era stata preceduta dalla ricerca di un’alleanza con gli Ubaldini (ne ho parlato nel Capitolo 5), seguirono almeno altri due tentativi, conclusi anch’essi da fallimenti. Come non aveva partecipato all’iniziativa della Lastra, così Dante rimase estraneo ai successivi sforzi per un rientro armato in Firenze.

     Nell’estate del 1304 lo schieramento guelfo aveva promosso il rinnovo della Taglia toscana, a capo della quale fu eletto Carlo di Calabria, figlio primogenito del re di Napoli Carlo II, e in agosto furono stretti a Empoli nuovi patti di solidarietà guelfa. Poco dopo (maggio 1305) il fronte ghibellino si appellò all’imperatore tedesco Alberto d’Absburgo, nel quale anche Dante avrebbe riposto fiducia e speranze, poi disilluse e ispiratrici di una postuma reprimenda (Pg. VI, vv. 97-117, e per un’altra accusa, per un’altra vicenda, non italiana questa volta, ad Alberto Par. XIX vv. 115-117). Alberto entrò in trattative con il nuovo papa, Clemente V, eletto dopo undici mesi di vacanza della sede apostolica (5 giugno 1305) e orientato ad allentare un poco il pesante legame con la corona di Francia. Si aperse così un giuoco diplomatico a tre, fra il papa, l’imperatore e il re di Francia. Ma il teatro toscano rimaneva un teatro di guerra, segnato dalle iniziative espansionistiche di Firenze dominata dai Neri, e massimamente dalla guerra per Pistoia della quale ho detto nel capitolo precedente sulla scorta di Dino Compagni. A capo della Taglia Guelfa fu posto il marchese Moroello Malaspina, che acquisì anche il Capitaniato di Pistoia dopo la capitolazione della città nell’apriledel 1306: senza nominarlo ma con icastica allusione Dante ne parlerà in  Inf. XXIV, vv. 144-150.

     Il primo maggio del 1308 fu assassinato l’imperatore Alberto, e le speranze di Dante e del fronte ghibellino d’Italia si riversarono sul re di Germania Enrico VII, eletto il 27 novembre, naturale candidato al titolo di re dei Romani, che avrebbe effettivamente conseguito ad Aquisgrana nel gennaio del 1309, e di conseguenza candidato alla corona imperiale, che gli sarebbe dovuta essere conferita a Roma previo un accordo con la sede apostolica. Mentre si svolgevano queste vicende regali si era creata nuovamente a Firenze e in Toscana una situazione tumultuosa. Dopo la morte del potentissimo Corso Donati nell’inverno del 1308 si scatenò in Firenze una guerra interna e una serie di persecuzioni contro il clan dei Donati, che aveva coinvolto  anche la famiglia dei Bordoni, fedeli di Corso. Al contempo procedeva una generale ripresa ghibellina in Toscana. Un forte sommovimento interno alla città di Arezzo condusse nella primavera del 1309 al ritorno al potere dei ghibellini con i loro capofila, i Tarlati, e suscitò un conflitto tra Arezzo e Firenze tra il maggio e il giugno di quell’anno.

     Frattanto, nel mese di giugno, era succeduto a Carlo II di Napoli il figlio Roberto. Nel gennaio del 1310 Enrico VII fu incoronato re d’Italia a Milano. Circa due mesi più tardi si tenne nell’impaurita Firenze un parlamento inteso a promuovere una lega guelfa con Bologna, Lucca, Prato e San Gimignano. Enrico VII inviava ambasciatori alle città di Toscana, e il 26 giugno del 1310 i Fiorentini scrissero ai Lucchesi per suggerire loro un cauto comportamento presso costoro. Pochi giorni dopo gli ambasciatori regali si presentavano a Firenze e in luogo di una rispettosa accoglienza scontavano una icastica risposta offensiva di Betto Brunelleschi: “mai per niuno signore i Fiorentini inchinarono le corna” (Dino Compagni, Cronica, III, §35).  Ben più rispettose furono le autorità fiorentine nei riguardi del re Roberto di Napoli, che venne bene accolto in città nel settembre.

     L’autunno del 1310 vide complessi scambi di corrispondenza e complesse negoziazioni fra tutte le componenti del giuoco  politico. Tra l’inizio di settembre e l’inizio di ottobre Clemente V ebbe uno scambio di lettere con Enrico, lo rassicurò  circa la prossima coronazione imperiale in Roma e lo accreditò della buona volontà di recare la pace nelle città della Lombardia e della Tuscia che erano lacerate sia da conflitti interni che da conflitti intercittadini:  il sovrano prometteva  peraltro di mantenere quelle città e le loro legittime autorità nel loro stato e nei loro diritti, come re giusto e pacifico signore.  In questi stessi giorni Enrico VII, con astuta mossa diplomatica,  investiva l’antico capo della Taglia guelfa, il marchese Moroello Malaspina, dei feudi che legittimamente costui deteneva in nome dell’Impero. Con questi appoggi e certamente anche recando con sé aspettative di tempi  migliori sia in una parte dello schieramento guelfo sia, più ovviamente, nei ghibellini variamente sbanditi dalle loro città, Enrico giungeva finalmente in Italia nell’ottobre di quel 1310.

     La situazione generale d’Italia e di Toscana si  fece rapidamente tesa tra la fine dell’inverno 1310 e la primavera del 1311. Fra i grandi vertici della politica europea l’atmosfera aveva rivestito ancora per un poco una tonalità di pace e di solidarietà. Agli inizi dell’anno Clemente V aveva accolto la richiesta di re Enrico di anticipare i tempi dell’incoronazione imperiale romana. Nel febbraio Enrico aveva riscosso l’impegno ad un aiuto finanziario da parte di numerose città, di marchesi e di conti dell’Italia settentrionale e dell’Emilia: il suo tesoriere e consigliere, il grande banchiere senese Niccolò Bonsignori, e il marchese Moroello Malaspina erano stati presenti alla solenne promissio. Ma che il rafforzamento di Enrico preludesse non ad un generico intento di pacificazione, bensì ad una impresa di soggezione nel quadro di una forte rivendicazione di città, cittadine e castelli che egli riteneva di diretta pertinenza alla corona tedesca, non era cosa dubbia. E mentre veniva redatto presso la cancelleria regia un amplissimo elenco delle rivendicazioni territoriali della corona, il governo dei Neri di Firenze rinnovò la lega guelfa. Il primo di aprile del 1311 gli ambasciatori fiorentini presentavano una accorata denunzia delle prevaricazioni di re Enrico al papa, che dal canto suo era impegnato in nuove trattative con l’aspirante imperatore e al tempo stesso stringeva nuovamente e con maggior forza di un tempo i suoi rapporti con il re francese.

     In questi frangenti venne preso in Firenze un importante provvedimento interno. Ai guelfi che erano stati colpiti da una sentenza di bando si offerse la revoca del bando, previ  modesti versamenti di denaro. Era il primo passo di una politica tesa a ricompattare il più possibile il fronte interno, attraverso una operazione accorta e selettiva di riammissione dei condannati politici. Questo orientamento sarebbe stato ripreso con maggior vigore nel settembre, con un provvedimento di amnistia che è noto perché, nella sua selettività, escluse dalla clemenza comunale una serie di persone tra le quali Dante Alighieri.

     Si aprivano adesso due anni di ostilità tra le forze imperiali di Enrico VII e gli schieramenti guelfi dell’Italia del nord e del centro, anni segnati da intervalli di trattative diplomatiche, manovre politiche ad alto livello, assedi di città e scontri armati che quasi mai furono risolutivi. In Firenze fu comunque e sempre acuta la preoccupazione per la tenuta del fronte interno, per l’iniziativa dei fuorusciti ghibellini e dei Bianchi non riammessi nelle amnistie, ed anche per la tenuta dello schieramento intercittadino formalmente coeso nella lega guelfa, ma entro il quale alcune cittadine, in particolare Poggibonsi e Colle di Val d’Elsa, erano ritenute di dubbia solidarietà antiimperiale.

     Era adesso re Roberto il grande punto di riferimento politico e militare di Firenze. Vi era stato oramai un avvicinamento decisivo fra il re e papa Clemente V, mentre erano fallite certe trattative matrimoniali fra Enrico VII e Roberto. I fronti si erano andati dunque irrigidendo, Enrico aveva promosso una inquisizione e un processo contro Firenze e aveva pronunziato un bando di condanna, che includeva anche tutti gli alleati di Firenze.

     Tutti i primi mesi del 1312, mentre Enrico si preparava all’incoronazione imperiale in Roma che si sarebbe celebrata nel giugno, Bologna, Firenze, Siena, Lucca e le altre città e cittadine della lega guelfa organizzavano, anche e soprattutto sul piano finanziario, i loro eserciti. Tra luglio e agosto il Comune di Firenze intensificava le trattative con re Roberto,  che in realtà esitava a lungo prima di assumere un comando fermo e un impegno decisivo nella lega guelfa. Quanto all’imperatore, egli prese qualche giorno di respiro a Tivoli, fece un breve rientro a Roma e la lasciò quindi alla volta della Toscana. Il suo esercito passò per Sutri e Viterbo, giunse poi a Todi, entrò nel territorio di Perugia e lo devastò, approdò infine a Cortona e nella roccaforte ghibellina di Arezzo. Alla metà di settembre, infine, iniziava l’assedio di Firenze.

     In breve tempo Enrico VII dovette prendere atto del fallimento dell’assedio e ordinò la ritirata dell’esercito. Il 4 novembre i Fiorentini fecero incendiare e distruggere Poggibonsi, una delle cittadine più sospette di ghibellinismo. Verso la fine del mese poi ingiunsero al podestà di San Miniato e ad altre autorità comunali di scacciare i ghibellini, e a Colle fecero una richiesta speciale: facesse demolire tutti i mulini del suo territorio che non erano strettamente necessari, così che non potessero cadere in mano dei nemici. Ma con la consueta alternanza delle vicende nel dicembre del 1312 il fronte ghibellino conseguì in Valdelsa un successo importante: una insurrezione provocata dal signore di Càsole d’Elsa, Ranieri del Porrina, fece acquisire agli imperiali l’importante cittadina. Il 1313 si aperse così con nuovo ottimismo ghibellino e una rinnovata iniziativa di Enrico VII, il cui esercito, spostatosi da San Casciano di Val di Pesa verso la Valdelsa, si accampò il 14 gennaio presso le rovine di Poggibonsi, e qui riprese l’antica idea di costruirvi un castello imperiale, del quale si pose la prima pietra alla metà di febbraio. Da Poggibonsi le forze imperiali, risistemato e“steccato”, cioè circondato di palizzate, quel castello, infliggevano quotidianamente incendi e distruzioni nei territori di Firenze, di Colle e di San Gimignano. Ma trecento fra cavalieri dell’imperatore e ribelli a Firenze, mentre cavalcavano nel territorio di Colle per fare scorta di vettovaglie e compiere le solite devastazioni, furono sorpresi dai guerrieri guelfi che ne uccisero più di ottanta e presero prigionieri più di trenta.

     Il 23 febbraio Enrico VII scagliava un nuovo bando contro le città alleate di Firenze. Lasciava poi Poggibonsi e si dirigeva su Pisa, dove entrò l’8 marzo. Nell’aprile decretava una solenne condanna contro quello che era adesso ufficialmente il comandante dello schieramento guelfo, re Roberto di Napoli. Il re aveva a lungo esitato prima di assumere un impegno aperto, adesso peraltro era non soltanto capitano della Lega Guelfa ma aveva anche ricevuto da Firenze la signoria sul Comune, per cinque anni. Lucca, Pistoia e Prato seguirono l’esempio. A distanza di una generazione, Giovanni Villani avrebbe valutato in senso positivo la scelta, motivandola con l’esigenza di una interna pacificazione. Studiosi dei nostri tempi hanno sottolineato come la signoria regale poco incidesse sulla costituzione interna di Firenze.

     La guerra vedeva ancora una presenza imperiale forte (Càsole rimase a lungo occupata) e una situazione tale da indurre i Fiorentini ad una continua attenzione. L’8 agosto Enrico VII lasciava Pisa e muoveva in direzione di Siena. Dopo una iniziale offensiva contro Castelfiorentino, che non ottenne successo, Enrico attraversò la Valdelsa passando tra Poggibonsi e Colle, giunse sotto le porte di Siena, poi per motivi che non è dato sapere si recò nel luogo di una indimenticata vittoria imperiale, Montaperti. Era ammalato, voleva curarsi con un bagno a Macereto. A poca distanza da Macereto esistevano i bagni, forse già al tempo più rinomati, di Petriolo, dove avevano cospicui possedimenti i Bonsignori. Ma il controllo di Petriolo era incerto, e per questo Enrico, desideroso di un bagno risanatore, si recò a Macereto. Di lì si mosse su Buonconvento, dove si aggravò e dove morì, il giorno 24 di agosto del 1313.

     Ghibellini e guelfi bianchi di Toscana si rifugiarono adesso a Pisa e ad Arezzo, e il fronte filoimperiale, pugnace e non sgomento per la morte di Enrico VII, si organizzò al nord sotto la guida di Matteo Visconti e di suo figlio Galeazzo, vicari imperiali, mentre in Toscana cercò un suo capofila nell’avversario coronato di re Roberto, Federico d’Aragona, re di Sicilia. Ma questi tornò presto nell’isola a combattere lì la sua guerra per il suo regno.

     Il grande capofila del movimento ghibellino in Toscana fu sino dal settembre il capitano di guerra, podestà e capitano del popolo di Pisa Uguccione della Faggiola. Alcuni anni prima egli aveva contrastato in Arezzo il grande clan ghibellino dei Tarlati, ma poi aveva riannodato il legame col ghibellinismo e aveva creato la sua base di potere nella ghibellina Pisa. Si apriva una sequenza complessa di movimenti offensivi, trattative per alleanze ed anche alcuni sforzi di pacificazione che ebbero per protagonisti fra l’autunno del 1313 e la primavera del 1314 Uguccione, i Comuni toscani grandi e minori, re Roberto di Napoli ed anche papa Clemente V, che però venne a morte nell’aprile del 1314 dando luogo a una lunga vacanza della sede apostolica. Quanto alla corona regia di Germania, e dunque in prospettiva alla corona imperiale, essa fu attribuita nell’ottobre di quell’anno al duca di Baviera Ludovico. Nel frattempo Uguccione si era impadronito di Lucca e nel luglio aveva organizzato una lega ghibellina pisano-lucchese; i guelfi lucchesi si erano allora rifugiati a Montecatini e in altre terre sotto la protezione fiorentina.

     Su Montecatini si concentrò allora il conflitto di Toscana. Nel marzo del 1315 Uguccione pose gli accampamenti presso la cittadina e tentò di espugnarla, ma fu respinto dai Fiorentini e dai fuorusciti guelfi di Lucca. Nell’agosto l’assedio venne ripreso, e il 29 del mese una memorabile battaglia vide sconfitte le forze fiorentine e guelfe. Secondo alcuni ci sarebbe una allusione alla battaglia in Pg. XXIII, vv. 109-111, ma a me non sembra probabile.

     Firenze cercò nuovamente un appoggio politico presso il re di Francia e promosse una nuova lega con Siena, Bologna, Città di Castello, Prato e Colle; anche Volterra e San Gimignano avrebbero aderito, ma pare senza eccessiva convinzione. E ci  si preoccupò ancora una volta di rinsaldare, oltre alle alleanze esterne, il fronte interno cittadino, promulgando una nuova, parziale amnistia per ghibellini e guelfi bianchi.

     Intanto nuovi protagonismi e nuove iniziative si erano realizzati nel campo ghibellino. Affermatosi inizialmente nella scia del potere di Uguccione della Faggiola, un grande condottiero e uomo politico, il lucchese Castruccio Castracani, era entrato con quello in aperto conflitto nella primavera del 1316 e lo aveva scacciato di Toscana. Uguccione riparò a Verona e lì sarebbe morto nel novembre del 1319. Era dunque a Verona negli stessi anni di Dante, il quale non ne fece menzione nella Commedia, come non fece menzione di Castruccio, che fra il 1316 e il 1320 si rese signore di Lucca. Nel frattempo era terminata la lunga vacanza della sede apostolica, con l’elezione nell’agosto del 1316 di Giovanni XXII, che sarebbe sopravvissuto a Dante ma fece in tempo ad essere ripetutamente oggetto delle sue accuse (Par. XVIII, vv. 130-136, e XXVII, vv. 58-60).

     Fu con questi nuovi protagonisti di vertice, e con altri protagonisti che da tempo erano sulla scena, che si avviò fra l’estate del 1316 e la primavera del 1317 un movimento pacificatorio tra gli Absburgo, gli Aragonesi e gli Angioini e in Toscana, sotto l’egida di re Roberto, tra guelfi e ghibellini. In questo contesto si svolsero trattative fra i Comuni toscani che si erano combattuti negli anni di Enrico VII e di Uguccione e ogni Comune inviò suoi rappresentanti alle trattative e alle stipulazioni di pace.

     La conseguenza maggiore del processo di pacificazione, e al tempo stesso il suo contenuto principale, era il richiamo in patria dei fuorusciti delle due parti. Fra il marzo e il giugno del 1317 il Comune di Pisa faceva istanza presso il Comune di San Gimignano per la riammissione degli sbanditi, nel luglio era Castruccio a muoversi in tal senso presso il Comune di Prato. Ma l’autunno del 1317 vide nuove forme di turbamento politico in Toscana. Il 7 settembre, in seguito ad un intervento papale, i vescovi di Firenze e di Fiesole pronunziarono una scomunica contro Castruccio, la prima di una serie.

     Tra la fine del 1319 e gli inizi dell’anno seguente la situazione per il fronte guelfo si era aggravata, soprattutto nella vicina Umbria, con l’intervento di Guido da Montefeltro e la cacciata dei guelfi da Spoleto e con le lotte fra Perugia ed Assisi. Il 26 febbraio del 1320 si teneva in Firenze un parlamento per trattare dell’aiuto ai guelfi in difficoltà.

     La situazione conosceva un ulteriore inasprimento con la nomina di Castruccio a vicario imperiale per Lucca e distretto e per altri distretti toscani (aprile del 1320), la sua assunzione della signoria sopra Lucca, la sua rinnovata alleanza con Pisa, l’alleanza tra i Visconti e i ghibellini toscani, la guerra per Genova, la formale assunzione della signoria di Arezzo da parte del vescovo ghibellino Guido Tarlati, e sullo sfondo una ripresa alla grande del conflitto angioino-aragonese, con l’invasione delle forze di Federico d’Aragona in Sicilia. Quando Dante venne a morte la situazione del conflitto guelfo-ghibellino era assolutamente aperta.

Nota. Sui tentativi di Bianchi e Ghibellini per un rientro armato in Firenze sintetiche ed eccellenti note nel commento di Tommaso Casini alla Commedia, alle pp. 875-877. Sia l’occasione per segnalare questo vecchio commento moderno, iniziato dal Casini nel 1887 e poi rielaborato e riproposto, con interventi e integrazioni da S. A. Barbi, tra il 1921 e il 1923 (editore Sansoni in Firenze), il quale è tra i più ricchi e puntuali commenti del poema. Quanto alle vicende che ho riassunto qui la base fondamentale rimane ancora la Storia di Firenze di Robert Davidsohn, tutto il vol. IV. Ponendomi dal punto di vista, molto istruttivo, di un Comune cittadino importante, ho parlato di questa fase politica trecentesca nella mia Storia di Colle di Val d’Elsa nel medioevo, III: Egemonia fiorentina e sviluppo cittadino, Parte prima:  Gli anni ghibellini, 1300-1321, Trieste, CERM, 2012 (Studi 09). Su Enrico VII il libro standard è William M(arvin) Bowsky, Henry VII in Italy. The Conflict of Empire and City-State, 1310-1313, Lincoln, University of Nebraska Press, 1960.

Autore: Paolo Cammarosano

In copertina: Filippo di Taranto e Uguccione della Faggiola alla battaglia di Montecatini, di Giovanni Villani – Nuova Cronica – ms. Chigiano L VIII 296 – Biblioteca Vaticana.