13. Dante nella prima generazione del Trecento

Le vicende di guerra che ho esposto nel capitolo precedente non riassumono la storia della prima generazione del Trecento, che fu l’ultima generazione nella vita di Dante. Anche rimanendo in un primo momento in Firenze e in Toscana, occorre aprire lo sguardo su importanti questioni, prima di allargare il discorso oltre la Toscana e prima di condurre una riflessione complessiva sull’atteggiamento di Dante.

     Agli inizi del secolo il Comune di Firenze aveva già consolidato quella espansione in un territorio distante alcune decine di km dal centro cittadino che abbiamo visto deplorata nelle parole di Cacciaguida (Cap. 9). La successiva estensione del dominio fiorentino in Toscana ebbe un inizio importante prima della fine del secolo, con l’acquisizione, sofferta e non definitiva, della sovranità sul Comune di Pistoia  (1296-1297). Poi l’evoluzione verso una egemonia politica regionale anche istituzionalmente formalizzata si sarebbe realizzata dopo la morte di Dante. Nel 1329 venne rinnovata la dedizione di Pistoia e si ebbe la prima sottomissione di Pescia. Seguì una prima affermazione di dominio su Arezzo (1337), destinata ad essere sùbito scossa e poi continuamente posta in forse per mezzo secolo, quindi nel 1351 la conquista di Prato. Nella Val d’Elsa, territorio già signoreggiato dai vescovi di Volterra e che in seguito aveva veduto lo sviluppo dei Comuni di Poggibonsi, di Colle e di San Gimignano, si era realizzata già verso la fine del Duecento la sottomissione del primo fra i tre Comuni, mentre si concluse tra il 1349 (Colle) e il 1353 (San Gimignano) l’evoluzione da una informale egemonia fiorentina a patti di subordinazione più istituzionalmente definiti; quanto a Volterra, essa avrebbe perso la sua indipendenza nel 1361.

     La tensione di Firenze verso la creazione di uno stato regionale era dunque molto lontana dalla sua conclusione negli anni in cui Dante compose la Commedia.  Altrettanto lontana era la compiuta creazione di uno stato di tipo regionale cui aspirava il Comune di Siena, il quale tuttavia  aveva già nel corso del Duecento realizzato importanti acquisizioni di potere nella Maremma, con le guerre contro i conti Aldobrandeschi che Dante conobbe e ricordò nella Commedia (vedi qui sopra nel Cap. 10).

     Due aspetti di queste vicende, che al tempo di Dante erano dunque ancora del tutto aperte, come era aperto il conflitto ghibellino-guelfo,  devono essere sottolineati. Uno. Anche nelle formazioni regionali e subregionali i domìni cittadini si innestavano su un pulviscolo di decine e decine di dominazioni  signorili, sia aristocratiche sia di enti religiosi, imperniate su castelli e cittadine minori e in continuo e nervoso mutamento. Due. All’interno di città e cittadine, maggiori e minori, si manifestavano, talora collegate alle espansioni esterne e dunque alla politica “estera”, pulsioni signorili. Erano cioè tendenze verso una organizzazione politica interna sovversiva del tradizionale sistema comunale imperniato sulla diarchia Consiglio-Podestà o Consiglio-Capitano del Popolo che ho descritto a suo luogo, e fondata invece sul dominio arbitrario e di durata vitalizia, senza interruzioni e alternanze, di un personaggio di rango nobiliare, talora anche insignito di una carica ecclesiastica, oppure di un clan familiare potente.

     Queste ambizioni  “tiranniche”  si erano già manifestate nella Firenze duecentesca di Dino Compagni, le cui notazioni in proposito ho esposto nel Cap. 11.  Ma esperienze di tipo signorile non conclusero nella città in alcun esito stabile fra Due e Trecento, quando si ebbero semmai  forme di signorie esterne, cioè di personaggi di stirpe regale ai quali il Comune volle per alcuni anni fare una dedizione, che però non alterava nella sostanza le istituzioni comunali duecentesche. In Toscana esperienze “tiranniche” più stabili si ebbero ad Arezzo e a Pistoia, con i protagonismi signorili di nobili prelati, ma furono vicende che accaddero negli anni immediatamente seguenti alla morte di Dante. Il quale avrebbe fatto in tempo solo a vedere in Lucca la breve signoria di Castruccio Castracani, cui ho accennato nel Cap. 12, della quale però non fece parola.

     Ben più importanti e stabili delle brevi signorie sperimentate nelle città toscane furono quelle, nella gran parte ben conosciute da Dante esule e da lui ricordate, che si realizzarono fuori di Toscana: nelle Romagne, in Lombardia e nell’Italia nord-orientale. Nel veloce capitolo dedicato alle vicende di Dante in esilio (Cap. 5) ho riassunto le peregrinazioni del poeta dalla Forlì signoreggiata da Scarpetta degli Ordelaffi alla Liguria dei marchesi Malaspina, quindi  nella Verona scaligera, infine presso Guido Novello signore di Ravenna.

     Dante non espresse mai, né nella Commedia né altrove, giudizi sui sistemi signorili di governo, ma si pronunziò sempre e soltanto sulle singole persone. La loro condotta poteva variare anche entro una singola dinastia: così in Verona al discutibile Alberto della Scala, morto nel 1301 e destinato all’inferno per aver fatto attribuire indegnamente un abbaziato a un suo figlio illegittimo (Pg. XVIII, vv. 121-126), successe l’ottimo Bartolommeo (Par.  XVII), poi il fratello Alboino, sul quale Dante espresse un giudizio non lusinghiero nel Convivio (IV/ XVI), e infine il magnifico  Cangrande (Par. XVII e Epistola XIII). D’altra parte Dante aveva espresso nel Convivio la convinzione del carattere non ereditario non solo della nobiltà, punto centrale del suo discorso, ma anche in genere delle buone e delle cattive qualità. Dunque l’eventuale grande pregio di un signore non si riverberava necessariamente sui successori e non determinava alcuna superiorità della “tirannia” sullo “stato franco”, che sono i termini tra i quali oscillavano i regimi al potere nelle Romagne, segnatamente a Cesena (Inf. XXVII, vv. 52-54), ma con una generale prevalenza, in quella regione,  dei “tiranni” (ivi, vv. 37-38).

     Occorre ricordare che i termini “tirannia”, “tiranni” potevano avere nel medioevo due significati: uno era quello di una assunzione di potere di tipo usurpatorio, non legittimata da alcuna concessione da parte di un’autorità superiore, un altro era quello dell’esercizio individuale, arbitrario e sopraffattorio del potere. Certo i due concetti erano collegati, e soprattutto sono collegati in Dante, dove nella celebre invettiva “Ahi serva Italia” di Pg. VI, vv. 76ss., si dice che “le città d’Italia tutte piene / son di tiranni” (vv. 124-125), e si imputa questo come gli altri mali d’Italia alla latitanza dell’Impero.

     In un medesimo contesto deprecatorio Dante non si espresse peraltro sulla superiorità o preferibilità dei tradizionali regimi comunali e in ispecie dei regimi “di Popolo”, quale il governo fiorentino che lo aveva mandato in esilio, rispetto ai regimi signorili piemontesi, lombardi e veneti. Deplorò, con speciale riferimento a Firenze, la volubilità, le continue mutazioni di provvisioni, di uffici pubblici, di monetazione (Pg. VI, vv- 143-147). Non parlò delle evoluzioni oligarchiche che al suo tempo si erano realizzate compiutamente a Genova e a Venezia, e nemmeno espresse un giudizio sui regni, di Napoli e di Sicilia e di Aragona, in quanto forme di governo, ma ancora una volta valutò, e in genere condannò, i singoli sovrani.

     Il fatto si è che nessuna di quelle dominazioni era per lui legittima, bensì l’unico vero titolare del potere supremo sugli uomini era l’Impero, come spiegò molto nettamente nel Convivio e come avrebbe ribadito nella Commedia e nella Monarchia. E la pluralità di regni, principati, domìni ecclesiastici, Comuni cittadini, signori configurava una Italia come un cavallo senza cavaliere: “la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasta” (Conv., IV, IX). Nel Capitolo dodicesimo del Primo Libro del De vulgari eloquentia, scritto in parziale contemporaneità con il Convivio (1304-1305), Dante celebrò gli Svevi e denigrò altri regnanti, aragonesi e angioini, e signori territoriali come i Monferrato e gli Este , e nel diciannovesimo canto del Paradiso avrebbe sciorinato una geografia politica “nera” che copriva tutta l’Europa (ne ho scritto nel Cap. 08).

     Ma lungo tutto l’arco dell’operosità letteraria e poetica di Dante questo Impero cui egli guardava come all’unica, legittima autorità sulla città degli uomini aveva attraversato una cronica sequenza di crisi dinastiche. Era in crisi di successione nell’anno in cui Dante nacque, poi ebbe una ripresa con l’avvento degli Asburgo (Rodolfo, 1273-1291,  “Ridolfo” nel Convivio, IV/II), poi Adolfo, 1292-1298, “Andolfo” ibidem), infine l’Alberto (1298-1308)  del quale Dante deplorò in una celebre sequenza di terzine l’abbandono dell’Italia e per il quale auspicò un severo giudizio divino (Pg., vv. 97-117).

     La condanna di Dante si estendeva anche al padre di Alberto, Adolfo, e a tutto il “sangue” della dinastia. Ma prima che la giustizia divina invocata da Dante si potesse realizzare l’imperatore Alberto morì assai umanamente, assassinato ad opera di un duca tedesco nel maggio del 1308. Dopo una problematica ma assai veloce crisi di successione, fu preferita al “sangue” degli Asburgo una persona di diverso lignaggio, Enrico VII di Lussemburgo, incoronato re di Germania, e dunque naturale candidato alla corona imperiale, nel novembre 1308. Il Convivio, incompiuto, fu composto durante questo intervallo, prima dell’avvento di Enrico VII. La Commedia sarebbe stata composta quando le speranze che Dino Compagni (vedi Cap. 11) e Dante e tanti altri avevano nutrito in Enrico VII erano state spente dalla sua morte nell’agosto del 1313.

     Dunque il “pensiero politico” di Dante, sul quale tanti hanno scritto e dissertato, deve essere inquadrato in una vicenda sempre in evoluzione, sempre tormentata e complessa, e che era ancora irrisolta nel tempo in cui Dante compose la Commedia. Infatti anche la morte di Enrico VII segnò l’avvio di una nuova competizione per la corona imperiale, che si sarebbe conclusa solo alcuni anni dopo la morte del poeta, aprendo una nuova fase politica, una fase di estremo interesse per la storia dell’Impero e del ghibellinismo, ma alla quale egli non poté partecipare.

     Su questo sfondo di incertezza dell’autorità imperiale, della sempre deprecata sovranità papale e dell’invasione papale nel campo di Cesare, e dell’altrettanto deprecato imperialismo  angioino si svolse non la scomparsa, ma quella lenta declinazione dell’ideologia imperiale e del ghibellinismo della quale Dante è un eminente testimone. Non devono essere iperinterpretati ma sono comunque notevoli i silenzi e le incertezze di Dante: silenzi sui leaders ghibellini  Uguccione e Castruccio (ne ho già detto nel capitolo precedente), giudizi oscillanti ma infine negativi (e in tal senso nettamente anticipati nel De vulgari eloquentia, dunque un poco prima del 1305) su Federico d’Aragona, la dinastia che fu per breve tempo alla guida del ghibellinismo, silenzio sul conflitto milanese tra i guelfi Della Torre e i ghibellini Visconti e la finale vittoria di questi ultimi. Fu infine entusiastico,  ma anch’esso si sarebbe rivelato non definitivo,  l’approdo al signore della Scala, Cangrande, vicario imperiale, cui Dante dedicò il Paradiso nel quale rifulgeva la gloria del povero Enrico VII (Par. XXX).

     Non si sa bene per quali ragioni Dante abbia lasciato Verona e Cangrande per recarsi a Ravenna presso Guido Novello da Polenta, signore della città dal 1316 al 1322. Giorgio Inglese, nel bel profilo biografico di Dante che cito qui in nota, ipotizza (pp. 140-141) in relazione a questo spostamento di sede un distanziamento di Dante dalla Pars Imperii. Ma il nesso tra le due cose non è sicuro, mentre è sicura quella deriva dell’ideologia imperiale e del ghibellinismo di cui ho parlato.

     La deriva consisteva nel non voler identificare in nessuna figura eminente o in nessuna dinastia o signoria un plausibile candidato a una corona imperiale che, come ho cercato di spiegare, era ancora in una situazione di assoluta incertezza. E così quando, probabilmente dopo avere concluso la Commedia, Dante pose mano a un trattato teorico sull’Impero, la Monarchia, si collocò su un terreno di alta astrazione: sostenne che il monarca, cioè l’imperatore, era colui la cui giurisdizione aveva per confine solo l’Oceano, ciò che non era il caso di altri “principes” quali ad esempio il re di Aragona (unico esempio arrecato). I regimi politici che deviavano dalla Monarchia universale, cioè le Democrazie, le Oligarchie e le Tirannidi, erano da valutare come “Politiae obliquae”, in tal senso tutte sullo stesso piano e tutte inaccettabili. L’autorità imperiale discendeva direttamente da Dio, ed era stata legittimamente ereditata dal Popolo Romano. In un veloce  percorso da Costantino a Carlo Magno a Ottone I si riassumeva lo spessore “storico” del trattato: grande esempio di quella sublimazione di una ideologia imperiale che dopo la morte di Enrico VII non aveva trovato nessuna convincente incarnazione se non, per breve periodo e senza approdo conclusivo, in un signore cittadino quale Cangrande della Scala, il quale poteva però vantare una sorta di delega imperiale, per essere stato insignito da Enrico VII dell’ufficio di vicario.

Nota.   Il profilo della vita di Dante e della composizione delle sue opere più attento alle circostanze storiche è a mio sommesso giudizio quello di Giorgio Inglese, Vita di Dante. Una biografia possibile. Con un saggio di Giuliano Milani, Roma, Carocci Editore, 2015, con riedizioni e ristampe fino al 2020. Ma è molto importante, in particolare per le vicende degli ultimi anni del poeta (da Verona a Ravenna) anche Alberto Casadei, Dante oltre la Commedia, Bologna, il Mulino, 2013 (Studi e ricerche / Critica letteraria, 650).

Autore: Paolo Cammarosano

Immagine di copertina: statua equestre di Cangrande della Scala nel Museo di Castelvecchio di Verona.