Franco Quaccia su Caterina Ciccopiedi – “Governare le diocesi. Assestamenti riformatori in Italia settentrionale fra linee guida conciliari e pratiche vescovili (secoli XI-XII)”

CATERINA CICCOPIEDI, Governare le diocesi. Assestamenti riformatori in Italia settentrionale fra linee guida conciliari e pratiche vescovili (secoli XI-XII), Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 2016 (Istituzioni e società, 21), pp. 367.

Recensione di Franco Quaccia

Caterina Ciccopiedi, con questo interessante e ricco volume, intende verificare i rapporti esistenti – ovvero i «punti di contatto» – fra la chiesa romana e alcune chiese locali nel corso dei secoli XI e XII: per compiere la sua indagine sceglie «di usare come spiraglio di verificabilità quello della normativa canonistica» (pp. 10, 11) e dunque di riferirsi a quanto espresso dalle disposizioni conciliari. Per mezzo dei concili generali – vale a dire semblee legislative della cristianità presiedute o legittimate dal pontefice – e in seguito di quelli locali, la chiesa di Roma tese a far valere determinati modelli per il governo dell’intera societas Christiana e in particolare delle diocesi: «non si trattava tuttavia – commenta l’autrice – di norme che nascevano con l’intenzione di un’immediata applicazione, ma di linee guida che esprimevano gli orientamenti generali di riforma espressi dalla sede romana» (p. 10). I pontefici, di fatto, tendevano ad agire in relazione ai singoli casi, anche disattendendo quanto prescritto dai canoni che loro stessi, o i loro predecessori, promulgavano. Non va sottovalutato, d’altro canto, come nella chiesa medievale il diritto fosse «sempre e soltanto uno strumento – necessario e imprescindibile, ma strumento – per conseguire l’unico vero fine: la conquista dell’eternità, la salus aeterna animarum» (p. 10). La chiesa romana dei secoli XI e XII, pertanto, non aveva posizioni rigide: i canoni promulgati in sede conciliare, sottolinea la studiosa, esprimono in modo efficace questo «indirizzo della politica pontificia, rispecchiandone talora le oscillazioni, talora la fermezza» (p. 11). Caterina Ciccopiedi, sin dalle pagine di apertura del testo, prende dunque atto dell’elasticità del diritto canonico e del nesso norma-prassi. Concetti, questi ultimi, che tornano costantemente nel volume grazie anche alla decisione di esaminare le costituzioni conciliari riguardanti il vescovo; proprio le norme canoniche aventi come oggetto l’ordinario diocesano, le modalità di elezione, la definizione dei rapporti con gli altri attori della vita nelle diocesi (monasteri, canoniche e laici) – ricorda ancora la studiosa – consentono, infatti, di porre in risalto la flessibilità romana nell’applicazione del diritto conciliare: ovvero di definire «quando e per quali ragioni le costituzioni conciliari erano disattese dalle stesse persone che le avevano promulgate» (p. 13). Considerati questi argomenti di avvio, la ricerca di Ciccopiedi è quindi volta a cogliere quanto i concili – «occasioni collettive con potenzialità normative» – stabilissero «di intervenire nell’impalcatura ecclesiastica delle singole diocesi e, dopo aver delineato le principali linee di intervento, mettere in rilievo che tipo di risposte sia possibile riscontrare nell’ambito diocesano» (p. 11). Nell’affrontare un simile percorso conoscitivo, d’altronde, l’autrice si mostra consapevole del complesso strutturarsi della dialettica fra centro e periferia, che «non può essere ridotta alla semplice contrapposizione tra istituzioni universali consolidate e stabilizzate attraverso meccanismi di autolegittimazione e latrici di perduranti istanze di centralizzazione da una parte e autonomie locali resistenti a quei disegni dall’altra» (D’Acunto, p. 11); non si tratta, in altri termini, di un processo che da Roma andava alle periferie ma di una sorta di reciproca legittimazione.

Per quanto riguarda poi le diocesi studiate nel lavoro di Ciccopiedi – Milano, Torino, Genova – la loro scelta, si apprende sempre dalle pagine introduttive, risulta innanzitutto dettata «dalla definizione di un ambito geografico relativamente limitato, significativo ma al tempo stesso controllabile, del regno italico» (p. 13). La periferia rappresentata da queste diocesi, d’altra parte, è tutt’altro che amorfa possedendo peculiarità ben specifiche: Milano si presenta quale sede metropolita in concorrenza con Roma, fortemente autonoma rispetto al potere regio e papale; Torino risulta una diocesi caratterizzata sia da un particolare legame con l’impero sia da una costante lontananza dalla curia pontificia; Genova è una sede vescovile in cui lo schieramento filoimperiale dei presuli sembra farsi sempre più netto nel corso del secolo XI. Si tratta quindi di tre realtà che, con differenze anche notevoli (si pensi specialmente al caso torinese), «possono essere esaminate dal punto di vista delle interazioni che ebbero con la sede romana, sotto lo specifico punto di vista delle linee guida tracciate dai canoni conciliari che erano, a loro volta, specchio di quanto succedeva nelle diverse diocesi del Regnum Italicum» (p. 277). Mettere in connessione le vicende delle varie sedi diocesane con la normativa canonistica – abbandonando l’ottica della mera applicazione della regola – rimane, d’altro canto, l’aspetto sicuramente più originale dell’indagine condotta dall’autrice. A scopo comparativo, infine, la studiosa ha incluso nella sua ricerca la diocesi di Trento: una circoscrizione «in posizione liminare poiché appartenente al Regnum Teutonicum» (p. 14) ma allo stesso tempo inquadrata all’interno di una provincia ecclesiastica del regno italico, quella di Aquileia.

Il tema, fondamentale, dell’elezione vescovile occupa la prima ampia parte dell’opera. Nel corso dei secoli XI e XII i canoni conciliari romani stabilirono alcune norme indirizzate a regolamentare la nomina dei presuli, «in particolare concentrandosi sull’individuazione degli aventi diritto al voto e sui prerequisiti di cui il candidato doveva essere in possesso per accedere alla carica vescovile» (p. 15). L’analisi dei decreti mostra chiaramente l’impegno dei papi volto a ricondurre la scelta e l’elezione dei candidati in un contesto di esclusiva competenza clericale. La parabola della definizione del corpo elettorale del vescovo, riassume l’autrice, «ha dunque il suo punto di partenza nell’elezione per clerus et populus, un’elezione aperta alla componente laica – (…) cui partecipava con un notevole peso anche il rappresentante più eminente del mondo laico, l’imperatore – sino ad arrivare a un restringimento degli elettori nel capitolo della cattedrale e poi nel pontefice, legittimato, con Innocenzo III, a qualsiasi intervento sui vescovi in virtù dell’esercizio della plenitudo potestatis che gli derivava dal suo ruolo di vicario di Cristo in terra» (pp. 27-28). Accanto all’anzidetto processo è affrontata la corrispondente questione – «lungamente dibattuta» (p. 46) – delle investiture laiche (di chiese minori, abbazie e vescovati); investiture che videro l’intransigente posizione di Gregorio VII (sinodo del 1075) sfumare in un sostanziale compromesso a testimonianza di come «la linea di una radicale separazione tra le due sfere (di potere) non poteva ancora essere intrapresa» (pp. 39-40). In ultimo l’autrice richiama il problema – strettamente collegato alla scelta del presule e centrale nelle assemblee conciliari del secolo XI – della simonia, «ossia la compravendita di cariche ecclesiastiche» (p. 49). Nel definire la natura dei provvedimenti antisimoniaci – dai concili di Ravenna del 1014 e di Pavia del 1046 (in cui papato e impero erano parte del medesimo progetto di riforma della chiesa) alla sinodo del 1074 con il primo drastico intervento sempre di Gregorio VII – le pagine di Ciccopiedi precisano il basilare argomento dell’obbedienza a Roma. Soprattutto le scelte gregoriane – allontanandosi da «ogni teologia sacramentale» (p. 70) – richiamerebbero, in effetti, una politica religiosa «che aveva il suo centro nella dottrina del primato romano: ed è a questa che tutte le altre questioni erano subordinate» (p. 69); solo grazie alla sede pontificia, dunque, poteva realizzarsi per Gregorio VII – e, in parte, per i suoi successori – la soluzione del problema della legittimità delle gerarchie vescovili locali. Da una prospettiva del genere andrebbe pertanto considerato l’evolversi dell’attenzione di Roma verso la devianza simoniaca: infatti con l’aprirsi del secolo XII, dopo il pontificato di Urbano II, «non essendo più funzionale al raggiungimento di un obiettivo, in questo caso il centralismo papale, i canoni conciliari dedicarono sempre meno spazio e importanza a quello che al principio del secolo XI era considerato uno dei massimi problemi della societas Christiana» (p. 81).

Lo studio di una serie di casi campione relativi alle elezioni vescovili, per le diocesi di Milano, Torino e Genova, apre le riflessioni volte a comprendere il legame esistente tra le direttive papali enunciate nei concili in precedenza descritti e il concreto svolgersi delle situazioni in ambito locale. In generale, dai documenti esaminati, si segnala in primo luogo una ferma propensione da parte degli stessi pontefici a non rispettare i canoni promulgati «qualora vi siano situazioni in cui risulta preferibile legare a sé uomini di fiducia che, pur non rispondendo alle caratteristiche indicate nelle costituzioni conciliari, garantiscano una presenza papale all’interno delle diverse sedi» (p. 119). Esemplare, in tal senso, risulta la linea seguita da Roma – lungo tutto il secolo XI e inizio XII – per le nomine alla cattedra vescovile sia ambrosiana sia genovese: indirizzo volto sempre a «privilegiare il criterio dell’obbedienza rispetto a quello della conformità ai canoni» (p. 87). Per Torino, viceversa, l’unica significativa (e tarda: 1243) interferenza della chiesa romana – compiuta «principalmente in opposizione alla politica imperiale» dei vescovi locali (p. 110) – attesta non solo l’importanza dei canonici del capitolo cattedrale ma anche come questi ultimi, nonostante la scomunica e le reiterate censure, continuarono «a difendere senza cedimenti la loro autonomia di fronte alla Sede Apostolica» (p. 110). La curia milanese a sua volta – osserva poi la studiosa – è la sola a offrire interessanti esempi rispetto alla questione simoniaca e alla validità delle ordinazioni impartite da simoniaci o da scomunicati (ovvero da quanti non erano nella piena comunione con Roma); un insieme di problemi che rinviano alla predicazione patarinica nella diocesi di Milano (con l’evidente richiamo alla «necessità di una rigida coerenza fra la dottrina professata e la vita vissuta» (p. 94). I disordini generati dal moto della Pataria, d’altro canto, permisero ai pontefici di inserirsi nelle dinamiche interne della chiesa milanese e quindi di affrontare direttamente la «delicata questione della successione alla cattedra ambrosiana» (p. 84). Per Genova, invece, il legame che si creò con la sede di Roma fu influenzato da un altro specifico fattore: l’elevazione in arcidiocesi e il conflitto che oppose la diocesi ligure a Pisa per il dominio sulla Corsica. Nell’ambito di questo contrasto, scrive Ciccopiedi, il papa «fu individuato come arbitro e pertanto le relazioni fra la città e la sede pontificia si fecero più strette» (p. 120). Diversi indizi raccolti nel contesto periferico, va comunque sottolineato, porterebbero a leggere non pochi canoni conciliari «come frutto di un’intensa comunicazione fra la sede romana e le sedi locali e del tentativo da parte della legislazione romana di dare soluzione a problemi riscontrati nelle singole diocesi» (p. 93).

Nella seconda parte del volume l’autrice considera i percorsi normativi diretti a disciplinare il complesso rapporto esistente fra mondo vescovile e mondo monastico. Le deliberazioni dei concili dovevano soprattutto rispondere all’esigenza di limitazione delle esperienze monastiche manifestata dai presuli in diverse situazioni locali. Tuttavia, sottolinea sempre la studiosa, «la connessione fra episcopato e monachesimo si espresse in casi così diversi che anche la sede romana si trovò in difficoltà nell’esprimere una linea di azione coerente» (p. 121). Dall’analisi dei canoni pontifici, comunque, emergerebbe la tendenza di rivalutazione dell’ufficio episcopale sia per ciò che riguarda la giurisdizione (con il diritto di decima) sulle aree monastiche – all’inizio «largamente favorite dalle stesse decisioni papali» (p. 124) – sia per quanto afferisce alla sfera spirituale, in primo luogo la cura d’anime; allo stesso tempo, tuttavia, i pontefici continuarono a manifestare «il loro favore verso alcune congregazioni monastiche indirizzando loro privilegi mediante i quali l’autorità del vescovo diocesano risultava fortemente limitata» (p. 152). Alle ambiguità e alle oscillazioni romane ravvisabili nei canoni – conclude l’autrice – corrispose l’altalenante linea seguita dagli stessi papi negli interventi locali. Venendo quindi alle indagini sulle singole realtà ricordiamo soltanto come il rapporto triangolare che coinvolge l’ordinario della diocesi, l’istituzione monastica e il papato offra – per Torino – il considerevole caso dell’abbazia esente e filopapale di S. Michele della Chiusa: il legame con la sede di Roma non impedì ai pontefici di «coordinare e talvolta ridurre i diritti dei monaci sulle chiese dipendenti con l’intento di favorire l’autorità d’ufficio dei vescovi» (p. 176). Il problema del controllo sulla cura d’anime – affrontato per la diocesi di Milano con la controversia santambrosiana – permette al contrario di verificare quale possa essere il reale senso dell’applicazione dei canoni: ovvero come «l’allineamento alle costituzioni conciliari» risulti a volte «strumentale rispetto al vero fine papale» (p. 160). I casi di alcuni monasteri liguri, in ultimo, danno modo di constatare il fatto che i presuli genovesi – rivendicando con sempre maggiore decisione le loro prerogative – «avessero mutato atteggiamento nei confronti del mondo monastico nel corso dei secoli» (p. 187): evoluzione che trovava un chiaro riscontro nei canoni conciliari.

La ricerca sulla disposizioni pontificie si conclude con il capitolo in cui l’autrice valuta il ruolo del vescovo nei contesti di riforma e di controllo del clero diocesano; in questo ambito – accanto alla disputa sul patrimonio ecclesiastico e sulle decime detenute dai laici – è principalmente preso in considerazione «uno dei cardini ideologici del programma della riforma centralistica romana» (p. 209): la lotta contro il clero ammogliato e concubinario (con la crescente proposta della vita in comune dei chierici). La studiosa, seguendo la parabola del dibattito sul celibato ecclesiastico, pone in luce il mutare dello stato dei presuli – «da controllati a controllori» (p. 199) – e il loro delicato e difficile confronto con le situazioni locali: elemento documentato da scelte vescovili che a volte si allontanano dalle direttive dei concili «per ragioni che non sempre coincidono con una non condivisione del programma di riforma» (p. 221). A tale proposito si pensi alla situazione della provincia ambrosiana ove il matrimonio del clero «aveva un carattere quasi dottrinale» (p. 218), essendo visto «come espressione della più autentica tradizione ecclesiale stabilita fin dall’età apostolica» (p. 241); o, ancora, si consideri la diocesi di Torino nella quale il vescovo Cuniberto fu rimproverato di essere troppo indulgente, verso i suoi chierici, sul problema del celibato. Nonostante queste (e altre) resistenze, l’argomento del matrimonio del clero – parimenti al tema della condanna riguardo alle decime possedute dai laici – «sono fra quelli – commenta l’autrice – che più si prestano a essere trattati come tentativi di applicazione riusciti (ovviamente con le dovute specificazioni caso per caso) della linea romana» (p. 272).

L’esame della diocesi trentina, con cui termina il volume, è indirizzato a comprendere quali fossero le prassi e le problematiche legate ai nuclei tematici individuati, in una regione quasi impermeabile alle direttive espresse dai pontefici nelle sinodi dei secoli XI e XII. La studiosa, raccontando la fase di avvicinamento e l’incontro con Roma, sottolinea come le disposizioni conciliari (nello specifico quelle del Lateranense IV) divennero «realtà con cui si dovette confrontare anche il clero di una diocesi di confine come Trento, a lungo, e ancora, legata allo schieramento imperiale» (p. 310).

Con le Conclusioni (pp. 311-326) Ciccopiedi, nel ripercorrere lo studio condotto sulle quattro diocesi dell’Italia settentrionale, sottolinea la sua scelta di lavorare «per caso singolo piuttosto che partire da un’impossibile definizione aprioristica» (p. 319): affrontando dunque situazioni concrete utili alla comparazione. Grazie a questa impostazione l’autrice ha potuto riflettere con maggior rigore sulla natura del diritto ecclesiastico, individuando «nello scambio a doppio senso fra l’eccezione e la regola (…) uno degli elementi essenziali della produzione del diritto stesso» (p. 320). L’analisi condotta, d’altro canto, ha permesso di verificare come la flessibilità del diritto consenta alla chiesa di Roma sia «una capacità davvero pervasiva di inserirsi nei diversi contesti locali» (p. 320) sia la possibilità «di fondare un nuovo potere, in questo caso il definitivo rafforzamento del primato petrino»: pur conservando i canoni, nei casi analizzati, «il valore di linea guida, di espressione degli orientamenti generali dei pontefici e del gruppo riformatore romano» (p. 321). Riguardo poi alla reazione vescovile nei confronti delle costituzioni conciliari, la studiosa rimarca il complesso dispiegarsi dell’azione dei presuli per cui è risultato più difficile individuare elementi di fondo in grado di fornire spiegazioni di carattere complessivo. Considerando, infine, le norme canoniche – in particolare dal punto di vista contenutistico – quale esito del dialogo fra centro e periferia, si constata come le costituzioni romane diano voce «non soltanto a richieste provenienti dalle sedi locali, ma anche a soluzioni già sperimentate all’interno delle singole diocesi» (p. 325).