Franco Quaccia su “Notai, cancellieri e ceto politico nell’Italia nord-orientale fra Due e Quattrocento” di Michele Zacchigna

Riceviamo dal nostro socio e amico Franco Quaccia un’ampia recensione del libro di Michele Zacchigna che abbiamo edito recentemente, e la pubblichiamo qui.

MICHELE ZACCHIGNA, Notai, cancellieri e ceto politico nell’Italia nord-orientale fra Due e Quattrocento, Trieste, CERM-Centro Europeo Ricerche Medievali, 2017(Collana studi, 15), pp. 191.

Il volume raccoglie tre lavori di un autorevole e penetrante studioso della società friulana medievale e del Patriarcato di Aquileia: Michele Zacchigna nato a Umago d’Istria nel 1953 e scomparso prematuramente nel 2008. Nel loro insieme tali ricerche – scrive, nella Presentazione, Paolo Cammarosano maestro e fraterno amico di Zacchigna – costituiscono «un contributo importante alla storia delle scritture istituzionali del tardo medioevo e dei loro protagonisti principali, i notai e i cancellieri»: contributo sul quale hanno mancato di soffermarsi anche i maggiori specialisti di storia del notariato medievale, forse a causa «di un più generale disinteresse per la storia di una parte d’Italia» in cui non sarebbe possibile cogliere lo «sviluppo di quella civiltà comunale e cittadina nella quale si è veduta inscritta fino dall’Ottocento la storia del notariato» (p. 9). In effetti, si apprende ancora dalla lettura introduttiva, anche i territori che dal secolo XI vennero annessi nel principato ecclesiastico di Aquileia furono territori di città,definiti non solo da una organizzazione politica ma anche da una cultura giuridica e amministrativa, con la corrispondente produzione di scritture, del tutto simili al resto del nostro Paese. E nuovamente in linea con lo sviluppo generale del medioevo italiano si mostrerebbero sia il differenziarsi delle dialettiche fra autonomia e subordinazione sia le situazioni di città e cittadine dell’Italia nord-orientale che «videro tra loro grandi diversità, le quali si riflettono nei ruoli molto diversi che il ceto notarile ebbe in ciascuna di loro» (p. 9), sia, infine, la realtà delle strutture documentarie e dei loro protagonisti. A questa gamma di circostanze e di esiti (in ambito tanto rurale quanto urbano) e a questo articolato paesaggio documentario – sul quale «come ovunque e come sempre» hanno influito «le casualità, le vicissitudini storiche e le tradizioni archivistiche» (p. 10) – Michele Zacchigna ha prestato ampio interesse con un accurato lavoro di ricerca e di ricostruzione (di cui sono indubbia testimonianza alcune delle pagine qui ripubblicate). Emergono, in tal modo, i primi espliciti elementi caratterizzanti gli studi di Zacchigna, ai quali va sicuramente aggiunto un altro significativo fattore riferito alla sua attitudine a connettere il momento tecnico dell’analisi con l’approccio di storia sociale. A definire compiutamente il lavoro del ricercatore istriano avrebbe concorso, infatti, «il rifiuto di una dicotomia fra gli storici della scrittura, segnatamente i diplomatisti, e gli storici delle evoluzioni sociali» (p. 12). Questa sincera volontà di contemperare ambedue i versanti – evidente sino dai primissimi testi prodotti dallo studioso – dopo venti anni di lavoro sul terreno della storia economica e sociale e di vicinanza allefonti manoscritte, ebbe modo di riflettersi nella ricerca sul notaio Quirino che apre la presente silloge (Le memorie di un notaio udinese al tramonto dello stato patriarchino: Quirino di Odorico cerdone detto Merlico (1413-1426), pp. 21-139). L’ambito cronologico tardomedievale allontana il lavoro da «quella fase di transizione e mutamento» della storia del notariato «che è stata uno degli oggetti principali di studio degli specialisti» (p. 13). Di fatto, dunque, l’indagine di Zacchigna non è focalizzata su argomenti di diplomatistica, in quanto all’aprirsi del Quattrocento il sistema formulare e formale della scrittura notarile si era consolidato almeno da cinque generazioni. Al di là di queste osservazioni iniziali, comunque, si dovrebbe in primo luogo porre in evidenza come l’autore abbia impostato il suo esame non sull’intero corpus delle imbreviature di Quirino, ma su quella parte di tale documentazione che il notaio strutturò in due quaderni di notae o memoriae. Questa particolare fonte si presenta come «una sorta di diario, una specie di libro di famiglia, imperniato soprattutto sulle notizie di interesse economico familiare e aperto occasionalmente al ricordo di eventi di natura politica o di curiosa accaduti in Udine» (p. 13). Una fonte, quindi, che per la sua stessa natura si presta a molteplici letture e a cui il ricercatore si accosta con alcune considerazioni introduttive in merito al tema della “territorialità” notarile. Cammarosano, nel richiamare la suddetta dimensione dello spazio insita nelle pagine di Zacchigna, sottolinea d’altro canto come «uno dei grandi pregi dello studio su Quirino e una delle sue più interessanti proposte metodiche è appunto nel rapporto tra il notaio e il suo territorio, inteso sia nella dimensione più ampia, cioè il Friuli e lo Stato patriarchino, sia nella dimensione urbana sia nelle relazioni con il mondo dei villaggi e dei lavoratori della terra» (p. 18).

Il primo capitolo del saggio, pertanto, è volto a comprendere l’evoluzione complessiva dei centri di produzione e di cultura notarile; l’autore, affrontando tale sviluppo vede emergere «consuetudini di “territorialità” mobili e trasversali ed orientamenti di occupazione “zonale” aderenti ad una intensa dialettica fra l’ordinamento delle strutture di inquadramento istituzionale e la movimentazione provocata dai fenomeni di concentrazione demica»: seguendo dunque «l’incessante mobilitazione dei poteri locali» – scrive lo studioso – «i notarii cercarono di adeguare il proprio intervento sul territorio secondo “misure” ed opportunità che furono via via diverse» (p. 24). Un percorso, quest’ultimo, di cui sono riassunte le tappe principali a incominciare – con il chiudersi del Duecento e il «prevalere delle vocazioni urbane ubicate in area pedemontana» – dalla “primogenitura” cividalese: ovvero dalla «pronta definizione del corpus notariorum» di quella città, «sostenuto dalla struttura delle scolae locali e dalle esigenze cancelleresche dei patriarchi» (p. 24). Volendo quindi tracciare le successive estensioni territoriali trecentesche, il testo rimanda sia ad alcuni ancoraggi di gruppi notarili a enclaves aristocratiche sia alla nascita, presso diversi centri minori, di «un notariato autoctono fortemente immerso nella società locale, per lo più ancorata ad un profilo agrario, ma nella quale i fenomeni di accumulazione e la diffusa presenza di un sostrato artigiano delineano gerarchie e dinamiche di affermazione sorprendentemente vivaci» (p. 25). Infine troviamo sintetizzati i passaggi che delineano, dagli anni Ottanta, non solo «il progressivo dissolvimento del notariato “rurale”» ma anche il lento emergere di Udine – ai cui notai fu assegnato «il compito di “servire” le campagne del Friuli centrale, piegate dalla povertà delle risorse demiche e dalla semplificazione della struttura sociale» – e, in ultimo, «il compatto “vuoto” quattrocentesco nella documentazione di imbreviatura attinente ai centri di profilo minore» testimoniante «l’oggettiva portata del capovolgimento congiunturale intervenuto nelle campagne friulane agli esordi del secolo XV» (p. 26). All’interno di questa parabola evolutiva – commenta Zacchigha – il tratto «mobile e vischioso» largamente assunto dai rapporti fra città e contado nella compagine patriarchina ripresenta «il tema della “territorialità” dell’intervento notarile, sia in riferimento ai professionisti dotati di un radicamento stabile nelle comunitates di maggiore spessore demico, spesso attivi anche nel contesto rurale circonvicino, sia riguardo al notariato inscritto nella vita sociale degli insediamenti minori» (p. 26). Una “territorialità”, in definitiva, quella che i notai friulani cercarono di ritagliarsi – in un contesto percorso da tensioni e incertezze politiche – che l’autore non esita a definire «insinuante e trasversale, guidata talvolta dalla familiarità con i luoghi di origine e dalla ubicazione degli interessi fondiari, tal’altra dalla promettente stabilizzazione di un segmento dell’intelaiatura gastaldionale» (p. 27). Volendo quindi affrontare i contorni della vicenda narrata «con il soccorso di qualche scorcio esemplificativo», Zacchigna si sofferma in specie sul raccordo fra attività notarile e presenza di famiglie nobili muovendo da una enclave di potere collocata nel Friuli centrale: qui emerge un notariato “di campagna” il quale – sotto il profilo del patrimonio – «pur condizionato in senso limitante dalla pochezza del comprensorio territoriale e dalla supremazia aristocratica, sembra reggere largamente il confronto con i notariipopulares insediati nelle realtà a vocazione urbana» (pp. 28, 29). Sempre considerando questo notariato – il cui esercizio si coordinava alle esigenze delle consorterie nobiliari (p. 30) – lo studioso ricorda, inoltre, come «la pochezza delle circoscrizioni castellane e la contestuale mobilità delle interferenze aristocratiche imposero in qualche caso ai professionisti delle note di operare nella logica del doppio regime: da una parte le esigenze strettamente locali, dall’altra un impegno trasmigrante al seguito dei potentes» (p. 31). A fronte delle anzidette esperienze – delle quali rimarrebbero in realtà pochissime attestazioni documentarie – il testo sottolinea, d’altro canto, il configurarsi di un notariato urbano – favorito dal movimento espansivo delle comunitates – «in grado di proporsi con insistenza anche ad una clientela residente extramoenia» (p. 32). A rendere poi esaustivo il percorso di ricerca proposto da Zacchigna – in merito al legame con la società rurale e alle “territorialità” notarile – concorrono le pagine finali di questo primo capitolo: pagine in cui viene illustrata l’ascesa sociale e politica di un notaio di Codroipo, figlio di un maestro pellicciaio e ascritto nel febbraio del 1400 alla cittadinanza udinese (pp. 33-41). Tenuto conto di come l’emergenza patrimoniale dei da Codroipo dovette aver conosciuto un periodo di accelerazione con l’ingresso nel notariato – dunque nel corso della vita di GeorgiusfiliusIohannispelliparii – secondo l’autore «per l’incremento delle ricchezze fu determinante, come testimonia un quadernucio del 1402, stilato dallo stesso notaio, la stretta contiguità con le esigenze più comuni dei massari: il piccolo prestito, la fornitura di animali da lavoro, la vendita di bestiame suino» (p. 36). Emerge, in tal modo, un requisito comune fra il notariato della Patria, ovvero «l’apertura verso le opportunità speculative offerte dalla diffusa fragilità del contadiname friulano»; a colpire, nel caso in questione, sarebbe «la portata territoriale via via assunta da questo tipo di iniziative» (pp. 36, 37). La fisionomia dell’assetto fondiario e le forme di concessione – quali si desumono dalla documentazione contabile e da altre carte lasciate, verso la prima metà del secolo XV, dal predetto notaio Giorgio e dal figlio Giovanni (anch’egli notaio) – pur richiamando i tratti peculiari delle campagne del Friuli nel tardo Medioevo farebbero tuttavia affiorare «i sintomi di un passaggio congiunturale decisivo: le potenzialità demiche e produttive dei territori patriarchini, già intaccate dagli effetti distruttivi della guerra, si avviavano verso una fase critica, duramente percorsa dalle epidemie e dal ridimensionamento dell’agricoltura» (p. 38). A indicare i contorni della crisi, conclude Zacchigna, sono principalmente «le modalità di intervento del lavoro contadino, diffusamente inclinate verso un progressivo allentamento del rapporto con la terra» (p. 39); in tale contesto la condizione dei massari, stretta dagli oneri debitorii, si volse «verso forme di accentuata dipendenza» (p. 40) mentre lo spessore produttivo dell’agricoltura friulana venne ulteriormente riducendosi «per la mancanza di risorse umane» (p. 41).

Considerata dunque quella che l’autore definisce «l’aderenza del notariato locale verso una interpretazione del proprio ruolo decisamente aperta all’intera dimensione territoriale della statualitàpatriarchina» (p. 33), il saggio – con il secondo capitolo – può concentrarsi sulla figura di Quirino: «capostipite di una “dinastia” di notai che restò sempre ancorata ad un profilo sociale modesto» quest’ultimo «aveva governato le sorti delle proprie fortune familiari fra le turbolenze politiche e militari che condussero alla dissoluzione del principato ecclesiastico aquileiese (1420) ed una fitta serie di accidenti privati» (p. 43). Di un simile percorso biografico – senza dubbio «difficile e tortuoso» – rimane testimonianza nei quaterni memoriarum del notaio: pagine «fedeli ad un codice di scrittura aspramente condizionato dall’uso “interno” delle annotazioni»; ovvero pagine dettate dall’«intenzione “diaristica” di natura strettamente personale, come dimostrano la naturalezza con cui affiorano le considerazioni di tipo morale […], i moti di esplicito risentimento all’indirizzo degli inimici, e forse lo stesso uso della lingua latina» e che a causa di questa loro qualità non hanno incoraggiato l’interesse degli studiosi di storia udinese (p. 43). Il prevalere degli appunti di interesse economico, commenta lo studioso, non toglie comunque l’impressione che il cuore delle memorie – e pertanto l’ottica selettiva che ne indirizza il contenuto – «risieda in uno spazio mentale rivolto principalmente alla salvaguardia del destino familiare» (p. 43). Si tratterebbe, in sostanza, di una scrittura guidata più che altro dal bisogno pratico – vale a dire da quanto connesso alla gestione patrimoniale – ma che, nel contempo, attinge ad una forte esigenza di autoriconoscimento: «alla luce di certe tonalità sembra che Quirino abbia voluto rappresentare a sé stesso l’impegno profuso nella puntigliosa ed energica difesa dello status sociale della famiglia, minacciato a più riprese dalla pressione negativa degli eventi» (p. 45). La voce del notaio, perciò, è «generalmente dimessa» sebbene, a tratti, si volga verso intense sfumature emotive e «verso squarci descrittivi del tutto imprevedibili» (abbracciando, in ogni caso, «circostanze di respiro assai diverso») (pp. 44. 45). «Gli accenni alle vicende familiari, ad alcune contingenze “notevoli” ed al succedersi degli avvenimenti politico-militari» – sostiene sempre l’autore – «rappresentano tuttavia, lontano da qualsiasi pretesa letteraria, le componenti costitutive di diario personale che promana spontaneamente dalla inclinazione della cultura notarile verso la scrittura» (p. 44, nota 4). A partire dal 1413 il percorso delle memorie diviene quindi una «guida sicura» per delineare la biografia del notaio seguendo il filo di un resoconto aperto, in ultima analisi, sul «piccolo universo di urgenze e di preoccupazioni che con più assillo si erano imposte alla coscienza di Quirino lungo l’ultimo quindicennio di vita» (p. 51).

Nella vicenda qui descritta emerge, per prima cosa, il ruolo non secondario del sostrato artigiano nei processi sociali che portano al notariato: un processo di rilievo abbastanza ampio nel contesto cronologico, non solo udinese, del secondo Trecento. Anche per Quirino, dunque, un primo riferimento per iniziare la professione va individuato nell’aderenza al mondo della produzione artigiana, tradizionalmente esercitata dalla famiglia di origine. «Sulla scia delle contiguità viciniali e delle amicizie già stabilite dal mestiere e dalla presenza sociale del padre» il giovane «si accostò alle esigenze di formalizzazione giuridica di un ambiente “minuto” – di cui conosceva sicuramente abitudini e comportamenti – (…) intrecciando l’attività di pubblico notaio con un complesso di relazioni alimentate dagli interessi patrimoniali» (pp. 45, 46). A fianco della durevole vicinanza del notaio con l’ambiente artigiano – nel corso tanto dell’attività professionale quanto delle vicende domestiche – lo studio di Zacchigna sottolinea poi come per Quirino fu difficile rimuovere le strettoie di una situazione patrimoniale «pesantemente condizionata dalla debolezza economica dell’entroterra familiare» (p. 47). Su questo versante della ricerca, d’altronde, risiederebbe un successivo tratto peculiare del lavoro di cui stiamo trattando, in quanto, generalmente, «meno si è detto forse sulla difficoltà in cui si trovava la maggior parte dei notai, una volta raggiunta tale promozione sociale, a farne base per una ascesa ulteriore» (p. 15). In base all’anzidetta prospettiva l’autore guarda di conseguenza all’azione di Quirino: azione indirizzata – anche con il susseguirsi dei quattro matrimoni – a «irrobustire le proprie disponibilità finanziarie» (p. 49) e a dilatare «attraverso una modesta attività di investimento» (p. 50) gli interesse fondiari dislocati specialmente in un nucleo forte tra San Martino, Codroipo e Zompicchia (p. 53) (anche se altre più modeste presenze del patrimonio familiare si trovavano nelle pertinenze di Ceresetto, villaggio di provenienza dei Merlici, e nei dintorni della località Pavia di Udine). Ma la situazione di Quirino «è normale, è quella di un notariato debolmente idoneo a un incremento di ricchezza fondato sulla professione, e orientato a investire il risparmio non in attività di tipo mercantile e di elevati rischi e profitti, bensì in qualche acquisto fondiario e in piccole operazioni speculative in ambiente rurale» (p. 14). In questa parte del saggio ritorna così in primo piano l’attenzione alla dimensione del territorio con la sottolineatura tanto dei rapporti tra il notaio e la realtà delle campagne quanto degli impegni connessi alla valorizzazione economica dei fondi (recuperandone le potenzialità produttive): temi che «risultano ampiamente illustrati dalle note, sia nella forma sintetica delle rationes, sia attraverso uno stillicidio di appunti di natura apparentemente occasionale e frammentaria» (p. 53). L’analisi delle memorie di Quirino – evidenziando nuovamente la presenza di difficoltà ed incertezze nello stato dell’economia rurale – permette all’autore di approfondire «il carattere reiterato ed avvolgente dei contributi padronali» (p. 54) unitamente al grado di soggezione del lavoro agricolo con lo «scivolamento della condizione contadina verso il famulato» (p. 57). Nell’ambito della proprietà urbana, commenta Zacchigna, il ruolo del contadino affittuario assunse infatti «un connotato vischioso, che per certi aspetti richiama la figura del famiglio; da qui un complicato intreccio di soccorsi economici, di protezioni, di disponibilità – sempre minutamente contabilizzate – nel quale si addensavano, con l’ingrossarsi degli oneri debitori, forme di dipendenza sempre più stringenti» (p. 54). Più in generale – considerando sempre il sistema di relazioni che Quirino strinse con la società contadina – accanto alla costante attenzione del notaio per certe rendite (si pensi alle entrate vinicole) il testo, in aggiunta, rimanda alle forti persistenze consuetudinarie che si riflettevano nei contratti agrari unitamente con le difficoltà a superare le concessioni a lungo termine (oltre alla compresenza di fitti in natura e di fitti in denaro o di introiti collaterali quale quello derivante dal commercio dei tini, p. 58, nota 34). A rendere esaustive le considerazioni riguardanti l’iniziativa economica di Quirino concorrono, a loro volta, le annotazioni sugli immobili urbani: un settore nel quale gli investimenti del notariato udinese ebbero particolare rilievo (costituendosi quale «fonte di una rendita in numerario che si integrava nel senso dell’entrata regolare con il flusso variabile delle spettanze professionali», p. 64).

Malgrado le suddette rendite la conferma che il notaio fosse costretto a muoversi entro margini indubbiamente angusti viene da una fonte di natura fiscale riportante la data del maggio 1428: uno dei tanti documenti esterni alle memorie ma che allo stesso modo Zacchigna ha reperito e utilizzato. La fonte in questione, permettendo «di collocare le modeste fortune patrimoniali del notaio entro un quadro abbastanza ampio di riferimenti» (p. 63), dimostra come Quirino – pur avendo «alle spalle almeno quattro decenni di attività professionale» (p. 65) – appartenesse a uno dei livelli contributivi più bassi del settore cittadino di attinenza. Evidentemente, commenta l’autore, «la sola pratica del notariato, condotta al servizio di una clientela prevalentemente “popolare”, costituiva un supporto insufficiente per la progressiva espansione delle fortune economiche» (p. 65). A sicura testimonianza dell’esistenza di un ceto notarile modesto – «costantemente esposto a una possibile caduta da una qualche agiatezza in una condizione di povertà» (p. 14) – rimangono pertanto le memorie di Quirino che «sembrano pervase dall’angosciante preoccupazione che l’accumularsi delle contingenze negative potesse incrinare seriamente la base patrimoniale su sui gravavano la esigenze della famiglia» (p. 65). Osservando dunque come per il notaio occorresse tenere conto, per qualunque investimento, sia delle «rigide esigenze del consumo alimentare» sia della «costituzione di un “argine” utile ad assorbire le situazioni che imponevano un esborso imprevedibile» lo studioso ha parimenti l’occasione di aprire, in base ad un testo cividalese del 1442, una interessante parentesi documentaria sulla nozione di abundantia intesa come quell’insieme minimo di patrimonio e reddito (il volume della riserva) che si riteneva potesse dare modo a una persona di non cadere in uno stato di miseria (pp. 65, 66, nota 52), Le note di Quirino, in questo ambito di cronica difficoltà economica, restituiscono, d’altra parte, una cultura materiale ordinaria ed umile in cui «si collocano le attenzioni alle masserizie, la necessaria mobilizzazione di alcuni beni di pregio tesaurizzati, il loro uso come pegno presso i banchi ebraici e altri prestatori per fronteggiare esigenze di liquidità, dettate queste magari da occorrenze minute» (pp. 15, 68 nota 57, 69, 70). Ai tanti passaggi difficili – esito sia di una realtà di crisi e di guerra sia di qualche disavventura professionale – si contrappongono, comunque, anche quelle circostanze attestanti un ampliamento nell’ambito degli impegni notarili. In questa direzione, spiega Zacchigna, l’approdo più considerevole furono le entrature guadagnate all’interno della confraternita di Santa Maria dei Battuti «che si configurano come un momento di promozione nell’ambito del notariato udinese» (p. 67); per Quirino l’investitura del sodalizio – con il ruolo privilegiato e centrale di cancelliere – «dovette rappresentare un motivo di rinforzo della fama professionale ed un veicolo utile per dilatare l’ambito della clientela, considerando la profondità delle diramazioni di interesse economico maturate intorno ai Battuti nell’ambiente» cittadino (p. 68).

Unitamente alle osservazioni sulla fonte sinora riassunte occorre, in ultimo, ribadire come l’arco cronologico dei due registri riportanti il “diario” del notaio – anni 1409-1417 e 1417-1426 – li inscriva nel periodo della crisi dello stato patriarchino aquileiese e dell’annessione al dominio della Repubblica di Venezia. Si tratta dunque di una di quelle rare testimonianzemedievali che ci parlano dell’atteggiamento delle cittadinanze di fronte a un mutamento di regime politico; riguardo alla percezione di Quirino, questa sembra non realizzarsi «in decisi e lucidi schieramenti di parte», ma rimanere «la percezione di chi subisce accadimenti sui quali il suo potere di intervento è inesistente» (p. 13). Prendendo avvio dalla detta impressione di fondo, l’accurata indagine dell’autore mette in luce – a datare dal 1417 – il riflettersi, nelle “memorie”, degli avvenimenti politico-militari che coinvolsero la città di Udine; richiamando tale situazione, il testo del notaio viene man mano a configurarsi «come una cronaca serrata ed allarmante degli episodi che porteranno alla vittoria militare veneziana», all’isolamento udinese e all’estrema umiliazione delle prerogative principesche (pp. 78, 79). Pur tenendo conto della relativa indifferenza di Quirino alle vicissitudini dei poteri superiori, queste ultime sono comunque pagine in cui «circola, sotteso alla tonalità prevalentemente descrittiva delle note, il contrasto fra la piena consapevolezza che gli eventi preludono ad un mutamento di straordinaria portata e la difficoltà di aderirvi» (p. 77). Ciò non toglie che la scrittura del notaio – «nel quadro di preoccupazioni concrete» (p. 77) – rimandi al valore politico della civitas, ovvero al sentimento di una assodata fedeltà cittadina (p. 13); da questo stato d’animo potevano scaturire le manifeste deplorazioni di interventi esterni e violenti (come la sortita militare contro Udine capitanata da Tristano Savorgnan del settembre 1419, pp. 81-82) e il plauso per la repressione e la punizione del traditore (con Quirino «testimone partecipe di un rito crudele e simbolico in cui si riversavano le esigenze della propaganda politica», pp. 82-83). Sullo sfondo si scorgono i legami con la memoria del principato ecclesiastico – la Patria ed il suo principe – minacciata dalla volontà di dominium della Repubblica («ed in certo modo tradita dal voltafaccia “illorum de Civitate”, “qui se dederunt Venetis ad destructionem Patrie”» p. 77); persino la polemica antiveneziana e la condanna dei proditores – scrive Zacchigna – «sembrano perdere rilievo di fronte all’immagine del patriarcato in dissoluzione, ed al repentino disperdersi delle sue lunghe tradizioni: probabilmente da qui quella maximamellenchonia che il notaio chiama talvolta in causa come motivazione accessoria della scrittura» (p. 77). All’avvento di Venezia, infine, le “memorie” – che mancano «di ogni sussulto indipendentista cittadino» – sembrano proporre, come «cautamente» suggerisce l’autore, «un atteggiamento di adesione a un nuovo regime dal quale persone di ceto assai umile come questo notaio si attendevano una pacificazione interna e una più decisa protezione dei debiles contro le prevaricazioni aristocratiche» (pp. 13-14). L’inclusione del Friuli nei domini di Terraferma, ricorda lo studioso, di fatto fu percepita come una svolta – all’indomani del 1420 – da diversi comparti della società locale che individuarono per l’appunto «nella iustitia veneziana una opportunità autentica, sia per il contenimento degli arbitrii nobiliari nelle campagne, sia per acquietare le tensioni fazionarie nei centri a vocazione urbana» (p. 87). Sul carattere illusorio di una simile attesa e sulle successive e numerose manifestazioni di poteri aristocratici prevaricatori, Zacchigna scrive alcune decisive pagine (pp. 87-90): bastarono pochi decenni, infatti, «perché la divaricazione fra l’intento di istituire una pax sorretta da istanze così aperte alle esigenze dei debiles e l’arroganza dei nobilesmilites, irrobustita dalle concessioni “signorili” veneziane, fosse pienamente visibile» (p. 88). Osservando, in particolare, le intimidazioni e le rappresaglie dell’aristocrazia «nella dimensione più minuta e strisciante della violenza privata» (p. 88) – per certi aspetti «ancora più significativa del carattere sistematico che veniva assumendo, verso la metà del secolo XV, la prova di forza della nobiltà» – l’autore dimostra come le consorterie, nel riproporre brutalmente il proprio ruolo, «sentirono il bisogno di rimarcare che l’incondizionato predominio dello statusnobiliare non avrebbe subito limitazioni dal nuovo ordine politico» (p. 89).

Al termine della sua trattazione sul manoscritto, lo studioso ritorna poi sui fattori che dovettero avvicinare il notaio «alla turbolenta realtà della sfera politica»: in tale frangente il richiamo va non solo alla formazione culturale e alla pratica delle note, ma anche all’«appartenenza ad un gruppo professionale che in quel torno di tempo si stava collocando al servizio della comunitas nel ruolo di un corpo “diplomatico” in grado di interpretarne le esigenze espansive» (pp. 93-94). Si può dunque concludere che Quirino nella parte di cronista – sebbene a volte laconico e approssimativo – «di alcune congiunture salienti (…) corrispose, con una intenzione tutta interna e privata, ad una esigenza di partecipazione che veniva direttamente dalla vocazione latamente politica dei notarii e da obiettive preoccupazioni per le sorti della terra e della propria famiglia» (p. 94).

Il notaio Quirino muore all’inizio del 1428; gli sopravvissero l’ultima moglie e il figlio Giacomo: attraverso quest’ultimo, ormai avviato alla professione notarile, il destino dei Merlici si sarebbe inoltrato lungo un’età meno turbolenta «senza tuttavia emanciparsi dalla condizione comune del notariato “minore”» (p. 94). Questa prima generazione appare quindi marcata da «grande continuità con l’esperienza e la situazione paterna», sia «per una certa, acclarata modestia delle risorse e l’intersecarsi con vicende dotali» (p. 16), sia per il rinnovato vincolo con il sodalizio dei Battuti di cui Giacomo divenne cancellarius (in una condizione retributiva peraltro migliore di quella del padre, p. 96). Giacomo rogò instrumenta in Udine per una quindicina di anni (1430-1446) ed ebbe due figli: Serena, che andata sposa ad un pellicciaio confermava «la relazione di questa famiglia notarile con gli strati superiori del mondo artigiano», e Odorico che seguendo la carriera del padre e del nonno «ne declinò la professionalità al disastro, specializzandosi nella confezione di documenti falsi e distruggendo la bona fama che i suoi ascendenti avevano acquisito» (pp. 16, 96).

Alla vicenda familiare successiva alla scomparsa di Quirino e, più nello specifico, alla questione della bona fama dei notai (temi non più illuminati da un testo di memoria ma da atti notarili contenuti in un registro di famiglia e da carte esterne) è riservato il terzo capitolo del lavoro. Come giustamente annota Cammarosano «le pagine dedicate all’infamante prassi di Odorico rivestono un interesse speciale, sia perché le modalità di falsificazione messe in opera da Odorico illuminano, in una sorta di “negativo”, la professionalità notarile sia perché Michele Zacchignaha incluso l’episodio in una disamina più generale della scrittura notarile di quel tempo e di quei luoghi» (p. 16). L’indagine privilegia il problema delle disposizioni di ultima volontà o delle donazioni espresse da persone in stato di debolezza o di infermità, principalmente nei periodi segnati da epidemie (pp. 97-108). La funzione del notaio – commenta l’autore – «si collocava spesso, riguardo agli instrumenta ultime voluntatis, in un contesto particolarmente delicato, e in forza delle pressioni esercitate dagli affines e da coloro che a qualsiasi titolo potevano ottenere beni o diritti, e in ragione della cornice di incertezza che circondava talvolta il requisito della piena facoltà di intendere del testatore (sanus mente, sensu et intellectu), offuscata dalla natura pesante ed acuta delle afflizioni fisiche (corporelanguens)» (p. 97). In un frangente dai contorni così vaghi era oltremodo facile per i notai cadere in qualche procedimento giudiziario o, comunque, «sopportare le conseguenze negative di una cattiva fama professionale» (pp. 97-98). Anche in questo caso lo studioso fornisce alcuni esempi chiarificatori in cui sono messe in evidenza, sul fronte documentario, le connessioni tra fonti notarili e fonti giudiziarie, promananti da un comune ceto e da una comune cultura. Il vacillare della mente quale circostanza invalidante il valore giuridico degli instrumenta, di solito ricondotto alla prostrazione generata dalle infermità del corpo (pp. 98-101), poteva altresì assumere del tutto il senso della malattia mentale come si desume da un processus iniziatosi nel 1441, «ancora incentrato intorno all’instrumentumdonationis e ad una figura femminile in stato di vedovanza» (p. 101). Una vicenda quest’ultima – illustrante il chiudersi della vita di domina Florfiliacondam Pontoni de Toglano (pp. 101-107) – che si mostra, a detta dello studioso, «meritevole di qualche accenno anche al di là degli aspetti attinenti alla responsabilità del notarius» (p. 101); si tratta infatti di pagine rievocanti «la realtà di un ambiente rurale percorso da un insieme di tensioni che sembrano prendere maggiore evidenza proprio nell’interagire con il fenomeno della follia, veicolo e sintomo di una inquietudine maturata sullo sfondo delle crisi epidemiche e del collasso dell’economia agricola» (pp. 101-102). Nello stesso confliggere degli interessi attestato dall’anzidetto processo, d’altra parte, si scorge una «larvata contrapposizione» fra l’ambiente urbano altolocato cividalese, «sorretto da una “cultura” cittadina che aveva lunga dimestichezza con la regolamentazione notarile dei propri diritti», e la società contadina di alcune ville circostanti «per lo più impegnata a condurre le masarezenell’ambito di una persistente resistenza delle consuetudini» (p. 102). Rimangono del resto ben definiti nel testo di Zacchigna – a fronte di quell’insieme di interferenze e di ineludibili “ambiguità” che sappiamo circondare la confezione degli atti testamentari – i termini entro i quali poteva poggiare la bona fama del notaio: quest’ultima di fatto «non si configura tanto come una disposizione ad assumere in modo neutro ed asettico le voluntates emergenti dal contrastato e volgare darsi degli interessi, ma nel proporre, sulla scorta della perizia tecnica e di una adeguata lettura delle circostanze, una affermazione nobilitata e “civile” delle intenzioni espresse dalla clientela» (p. 108). Nell’ambito della professione notarile – in cui senza dubbio pesava «la frizione tra l’autonomia e le ragioni mercenarie dei notarii ed il valore pubblico degli instrumenta» (p. 109) – veniva infine a collocarsi, su di un piano ancora diverso, il falsum instrumentum. In questa occasione l’atto delegittimante – scaturito dalle stesse fila del notariato – non poteva che caricarsi di una potenzialità distruttiva: «l’evidenza del falso rappresenta una lacerazione intollerabile e lo svuotamento radicale dei presupposti “ideologici” che fondavano la forza ed il prestigio del gruppo professionale» (p. 110). Sulla scorta di tali considerazioni viene esposto il caso del falsificatore Odorico (pp. 109-113) autore dietro congrui compensi da parte degli interessati di sette contraffazioni diverse per natura dell’atto e per tecnica: probabilmente per il notaio «un impegno collaterale di carattere continuativo, utile per aggiungere qualche ducato alle entrate professionali “legittime” e per ottenere denari in mutuo senza computo di interessi» (p. 112). L’attività illecita del nipote di Quirino – secondo le attestazioni documentarie rintracciate – «si configura come una sorta di compendio delle “tecniche” comunemente in uso per la pratica fraudolenta del notariato; gli ambienti e le circostanze richiamano gli appetiti di un sottobosco sociale pronto ad afferrare, con metodo e disperata determinazione, l’occasione propizia per una conquista patrimoniale che spesso sembra di poco momento, ma nella quale si spera fermamente» (p. 110). Il percorso notarile dei Merlici si era protratto per tre generazioni: «l’auspicio di Quirino per una iustitialontana dalle connivenze di parte ed alla portata dei debiles» – conclude Zacchigna – «naufragava» nella tragica e simbolica punizione di Odorico (p. 113).

Integra degnamente questa articolata e interessante ricerca – arricchendola, nel quarto capitolo, con ulteriori dati e riflessioni – uno sguardo di insieme sul notariato udinese fra la metà del secolo XIV ed il primo Quattrocento. Tale notariato emergeva nel suo complesso come un ceto che pur avendo acquisito un risalto notevole in città, ed essersi rafforzato da un punto di vista quantitativo ebbe tuttavia difficoltà a costituirsi come un corpus di rilievo nella conduzione della vita pubblica. La «condizione disaggregata» del corpo notarile di Udine viene plausibilmente ricondotta dall’autore ai «tratti fondamentali di uno sviluppo cittadino condizionato dal peso schiacciante dell’egemonia nobiliare, dalla fondamentale debolezza e permeabilità della compagine sociale in grado di condensare interessi popolari, dalla povertà dell’apparato istituzionale con cui la terra difese le sue prerogative di autonomia nell’ambito del dominium territoriale principesco» (p. 115). Tenendo presente questa realtà di fondo, risulta quindi comprensibile come gli aspetti identificanti la professione notarile – dalla preparazione tecnica, all’investitura e funzione pubblica, alle consuetudini di devozione confraternale – non furono sufficienti «per attribuire al corpusnotariorum udinese in quanto tale un peso condizionante la direzione politica della città» (p. 116). Ciò nonostante va in ogni caso ricordato come Zacchigna segnali «alcune differenziazioni interne al ceto, l’emergere delle figure di doctoreslegum, l’emergere di poche figure di élite e comunque il distinguersi, nel novero di questi quaranta o cinquanta notai dell’epoca di Quirino, di un segmento evoluto verso una fisionomia più apprezzata: una fisionomia di cancellierato, raggiunta mediante la partecipazione ad ambascerie, la partecipazione al Consiglio cittadino e insomma la capacità a sfruttare appieno una competenza tecnica e culturale non circoscritta alla contrattualistica privata» (p. 17). Per seguire il coinvolgimento del notariato nella gestione degli uffici – ovvero la significativa «convergenza dei notarii verso i luoghi della partecipazione politica» (p. 125) – l’autore ricorreva all’esteso spoglio di un materiale documentario di natura eterogenea; spoglio che parimenti è alla base di un pregevole repertorio prosopografico edito in appendice (Notai attivi a Udine fra il 1384 ed il 1394, pp. 141-145). Anche in queste ultime pagine, però, la disamina generale di Zacchigna era sempre accompagnata dal «suo gusto per i profili individuali» (p. 17); si veda ad esempio, accanto a diversi altri, il ritratto di Leonardo dei Thialdi (pp. 128-130) che fu notaio pubblico fra il 1385 ed il 1430 e cancelliere, e che rimase «per lo più esterno alle magistrature di valenza politica» pur ricoprendo «incarichi di rappresentanza diplomatica di non poco rilievo» (p. 129). Dettata da un simile proposito rimane d’altro canto emblematica la stessa conclusione del lavoro su Quirino; conclusione rivolta alla stesura di un più conciso profilo: quello del notaio Antonio a Fabris (pp. 136-139) anch’egli di matrice artigiana e anch’egli scrittore di un quadernuccio. Fonte quest’ultima, datata fra il 1438 e il 1456, che consentiva non solo «di cogliere qualche aspetto di una condizione sociale e professionale che si colloca chiaramente al di là dell’esperienza dei Merlici, nonostante le comuni radici popolari» (p. 136), ma anche di sottolineare ulteriormente il contesto dei rapporti con le campagne e quella che Zacchigna definì la “territorialità” del notariato (pp. 17, 139).

Accanto all’indagine sul notaio Quirino, sui suoi successori e sul suo ambiente, il volume ripropone altri due studi, più brevi, di ambito triestino. Protagonisti di queste ulteriori pagine sono i cancellieri comunali: élite sia politica sia culturale e sociale, della quale l’autore ebbe modo di ricostruire la formazione e l’evoluzione su un lungo arco di anni. Il primo dei detti lavori (I cancellieri del Comune di Trieste, pp. 157-165) apparteneva a un’opera a più voci, edita nel 1982, rivolta a descrivere le fonti trecentesche triestine di matrice pubblica e comunale. Zacchigna – in queste che sono tra le sue prime pagine giovanili – si soffermò a esaminare una fra le meglio conservate di tali serie archivistiche: la “Cancelleria”, individuandola come «un fenomeno innovatore» organizzato e consolidato nel ventennio 1320-40 «il periodo in cui la costituzione comunale triestina si compì nei suoi lineamenti di base» (p. 158). Tanto l’articolarsi delle strutture comunali quanto l’approfondirsi della cultura politica e giuridica – asseriva il ricercatore – di fatto favorirono l’estendersi delle esigenze di registrazione scritta anche nell’ambito cancelleresco. Si venne in tal modo avviando una intensa attività scritturale, redazionale e di registrazione, la quale era sostanzialmente «“servile” all’esercizio della giustizia e della legislazione che competeva in capite agli organismi dirigenti, podestà, suo vicario e Consiglio» (p. 11). Nei chiarimenti via via forniti ricorrono problemi rilevanti per la storia della giustizia in età comunale: dall’eredità romanistica (il principio della contestazione della lite, p. 161) alle definizioni distintive di procedura sommaria e procedura ordinaria (pp.161-162), alla supremazia del documento scritto sulla testimonianza orale (p. 162). Tale insieme di questioni viene ancora integrato con esempi specifici di vicende giudiziarie (pp. 162-164) che vedevano affrontarsi «persone affini per ceto, con un cemento sociale costituito anche dalla professione notarile»: in un caso «gli attori erano esecutori testamentari di un notaio, notaio era il convenuto» (pp. 12, 163).

L’interesse per i cancellieri ritorna infine anche nell’ultimo dei saggi qui riprodotti: testo redatto per gli Atti del Convegno Medioevo a Trieste. Istituzioni, arte, società nel Trecento (2007) e uscito postumo e incompiuto nel 2009 (Notariato, cancelleria e “ceto politico” a Trieste, 1250-1335, pp. 167-187). Lo studioso poneva in luce, rispetto ai territori patriarchini e poi veneziani, la relazione oltremodo peculiare tra ceto notarile e ceto politico che contraddistingueva l’ambito triestino tardomedievale; ambito nel quale «si assiste, fra il secondo ed il terzo decennio del secolo XIV, ad una stretta convergenza fra la costruzione e il perfezionamento dei meccanismi politico-amministrativi, la moltiplicazione delle esigenze di scrittura e l’assestamento di un gruppo di famiglie alla guida del comune» (p. 167). Attraverso questo passaggio, che l’autore definisce «per certi versi tardivo», si sarebbe fatta strada «una soluzione di governo fortemente inclinata verso la forma del patriziato chiuso» (ovvero dettata dal principio dell’ereditarietà per l’elezione dei membri del consiglio maggiore, p. 167, nota 2). Il profondo e strettissimo nesso tra pratica notarile e funzioni di governo viene a sua volta dimostrato da una meticolosa analisi prosopografica (pp. 169-174); grazie a questa stessa indagine la fisionomia del corpus notariorum triestino trovava comunque significativi momenti di differenziazione interna: dal forte condizionamento di alcuni gruppi familiari (pp. 170-171), all’origine più o meno vetusta e altolocata delle famiglie, alla presenza di alcuni notai di condizione ecclesiastica che in discreto numero gravitavano interno alla cancelleria vescovile (p. 173). Tuttavia «l’immagine di un notabilato largo ma chiuso e di una totale sovrapposizione tra ceto notarile-cancelleresco e ceto dominante non viene erosa da qualificazioni e articolazioni, e tutto è poi ricondotto dall’autore, correttamente, a una base economica librata tra proprietà fondiaria, soprattutto di vigneti, e piccole attività di prestito, e molto marginalmente orientata su attività commerciali o su attività creditizie di largo respiro» (pp. 19-20).

Nel loro insieme i testi di Zacchigna che il CERM ha voluto raccogliere e presentare in questo bel volume, testimoniano ampiamente la ricchezza e la profondità del lavoro di uno studioso dedito con passione, competenza e metodo esemplare all’indagine storica. Di certo – si può dire con Paolo Cammarosano – per quanti vorranno avvicinarsi alla storia medievale del Friuli, e completarne determinati aspetti, verrà purtroppo a mancare «l’incomparabile sostegno che il talento di ricerca e la capacità analitica di Michele Zacchigna avrebbe assicurato».

Franco Quaccia