Terremoti ed epidemie

Il 25 gennaio del 1348 una parte importante del territorio del Patriarcato di Aquileia, del Ducato di Carinzia, quello della Carniola e Venezia furono colpiti da un forte e grave terremoto le cui ripetute scosse furono avvertite, ricorda Matteo Villani (Chronica con le continuazioni di Matteo e Filippo, a cura di Giovanni Acquilecchia, Torino 1979), per quaranta giorni. L’evento, che gli studiosi hanno localizzato a quel tempo tra Slovenia e Friuli, distrusse molti centri dell’alto Friuli; i castelli di San Daniele, di Ragogna, la chiesa di Gemona e quella di Venzone e a Udine il palazzo del Patriarca subirono dei grossissimi danni (G.F.B. De Rubeis, Monumenta Ecclesiae Aquileiensis, App. 43). A Venezia case e campanili caddero e, ricorda Samuele Romanin ( S. Romanin, Storia documentata di Venezia, III, pp. 155-158)  la popolazione spaventata vide “seccarsi i canali” e poco dopo arrivare, probabilmente dall’Asia centrale, la terribile peste che percorse velocemente tutta l’Europa, espandendosi dal bacino del Mediterraneo (vedi pianta tratta da W. H. MacNeill, La peste nella storia. L’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia dell’umanità).

Da Zara, il 28 febbraio del 1348, Giacomello Tevisan scrisse una breve missiva al suo amico mercante Pignol Zucchello, rimasto a lavorare a Venezia mettendolo al corrente sia dei prezzi e dei crediti che lo stesso vantava su terzi clienti di entrambi sia del fatto di essere ancora vivo e diretto nuovamente verso casa nelle difficili ore di quella primavera entrante del 1348.

            Domino Pinuol Zuchello, Iacomel Trivixan salludo. Sapis ch’io son sano e salvo in Zara e von in Anchona. Con ll’aide de Dio tosto sirè da tie. (…)

Pochi giorni da quella lettera di Giacomello Trevisan (cfr. Lettere di mercanti a Pignol Zucchello (1336-1350) a c. di R. Morozzo della Rocca, Venezia 1957, p. 117) a Venezia sarebbe scoppiata quella che viene ricordata dagli storici come la più importante epidemia di peste della storia. Lo stesso Pignol Zucchello, quasi sicuramente un pisano trasferitosi con tutta la famiglia a Venezia a San Giacomo dall’Orio per fare del commercio, coadiuvato da altri mercanti, a Candia, Alessandria, Tana, Famagosta e Zara, sembra essere morto entro il 1350 dal momento che le lettere a lui inviate dai mercanti si interrompono bruscamente; e null’altro sappiamo nemmeno di Giacomello Trevisan.

La storia di quel grave periodo è cadenzata da moltissime testimonianze sicuramente più dirette di quella di Giacomello Trevisan che in questa occasione ho voluto offrirvi per coprire il piccolo spazio del Cerm sugli avvenimenti calamitosi del 1348 proponendovi, a suggello, anche una testimonianza epigrafica di grande effetto, fino ad ora poco impiegata per ricordare le calamità occorse nel nostro territorio nel 1348, e prodotta per essere apposta nel chiostro della Scuola Grande di Santa Maria della Carità a ricordo di quegli eventi tragici vissuti dalla popolazione veneziana facente parte di quella importante confraternita.

Trascrizione del testo inciso e posto a Venezia, Scuola Grande si Santa Maria della Carità, chiostro:

I(n) nome de Dio eterno e d(e) la biada vergene Maria in I ano de la Incarnacion | del nostro Signor Miser Ie(su)m Cr(ist)o MCCCXLVII a di XXV de çenér, lo |di de la co(n)versio(n) d(e) S(en) P(a)olo cerca ora d(e) bespero fo gran taramoto i(n) Veniexia e q |uasi p(er) tuto el mo(n)do e cade molte cime de canpanili e case e camini e la glesia de | se(n) Baseio e fo sì gran spave(n)to che quaxi tuta la çe(n)te pensavano morir e no st(e)te| la tera de tremar cerca dì XL e può driedo questo començà una gran mortilidad(e) | e moria la çe(n)te d(e) diverse malatie e rasion. Alguni spudava sangue p(er) la boca e alguni | vegniva glanduxe soto li scaii e a le lençene a alguni vegnia lo mal del carbo(n) p(er) le carne e pa | reva che q(ue)sti mali se piase l’un da l’oltro, çoe li sani da l’infermi. Era la çe(n)te i(n) tanto spa | (v)e(n)to che’l pare no voleva andar dal fio né ‘l fio dal pare e dura q(ue)sta mortalidade cerca mexi | VI e sì se diseva comunamentre che’l iera morto ben do parte de la xente d(e) Venexia; et i(n) q(ue)sto te(m) | po se trovà eser vardia(n) d(e) q(ue)sta Scola miser Piero Trivisa(n) d(e) Barbaria e vivè cerca mexi II el morì | ello e cerca X di soi (con)pagni e c(on) plu de CCC de q(ue)li d(e) q(ue)sta Scola in gran derota | e può a dì XX d(e) çugno fo fato vardian miser Iacomo Bon dala Çudecha. Ancora in questo 15 ano | aver li fedel cristiani una grandisima garcia da miser lo Papa, che in cascaduna parte | ch’eli moria cortriti deli soi pecadi, dal dì dela Asension de Cristo infina al dì de | Senta Maria Madalena, sença pena andese ala g<l>oria de vita eterna ala qual sì nde |co(n)d<?>ga lo onipote(n)te Dio, Pare e Fiol Sp(i)ri(t)o S(an)c(t)o, lo qual vive e regna in s(e)c(u)la s(e)c(u)lor(um), amen.

Le dimensioni dell’iscrizione “a lunetta” ancora oggi ben leggibile e qui sopra trascritta, sono di cm 231 alla base e di 99 cm in altezza. Il testo inciso è stato composto in volgare, alla stessa stregua di altri documenti epigrafici del trecento veneziano, e a differenza invece degli atti pubblici prodotti esclusivamente in latino, con l’ovvio intento che quanto era stato inciso potesse essere letto dalla più parte della popolazione. Esso rimanda a stereotipi ben conosciuti nel medioevo e derivanti, per vie traverse, da Tucidide (cfr. Le Storie, II, 47,2-54) fino a Paolo Diacono (cfr. Storia dei Longobardi, II, 4) quindi anche rifluite in testi molto importanti come il Decameron di Giovanni Boccaccio, che qui di seguito vi proponiamo di leggere grazie alle scansioni messa a disposizione dei nostri lettori.

Disperazione, orrore e strage sociale, così come possiamo leggere nell’epigrafe di Venezia, e per epoche diverse in Tucidide e Paolo Diacono, furono comuni nel 1348 nelle città italiane come in tutto il territorio europeo fino alla Groenlandia. Nel 1348 Marsiglia, come lo erano state prima Costantinopoli, Alessandria, Cipro, e quindi Messina, fu la più colpita. Nella diffusione dell’epidemia seguirono Genova, Firenze e, quindi la peste giunse, sicuramente dal mare, a Venezia divenendo immediatamente l’epicentro per la propagazione del morbo in Friuli e verso l’Austria.

Come si diceva, molta documentazione, non solo quella epigrafica, ma in modo speciale quella narrativa (cfr. le pagine del Decameron di G. Boccaccio), è testimone delle difficoltà e dello strazio vissuto nelle città; non sempre leggiamo però l’atteggiamento istituzionale che le diverse città attuarono in quella situazione drammatica.

Di fronte alla strage della popolazione Venezia si mosse quasi immediatamente istruendo il Maggior Consiglio a eleggere, già in marzo, i tre savii Nicolò Venier, Marco Quirini e Nicolò Belegno, destinati a provvedere alla “conservazione della città” dal contagio proveniente dai luoghi vicini. Ogni sforzo però fu vano dal momento che nulla di tentato riuscì a impedire lo sviluppo della malattia in città.  Per lunghi mesi, ricorda Romanin, la peste imperversò a Venezia e i tre quinti della popolazione, vale a dire 80-90 mila individui su un totale di 120-150 mila persone, morì; cinquanta famiglie nobili furono completamente “spente”. Solo nel febbraio del 1349, in Friuli, scrisse De Rubeis, l’epidemia poteva dirsi debellata.

Durante i mesi della pestilenza il governo veneziano fu fortemente scosso nelle sue istituzioni e nuove elezioni dovettero essere presto fatte per ripristinare il consiglio dei XL, l’organo istituzionale più colpito; inoltre, prima che cessasse completamente l’epidemia, già nella giornata dell’11 agosto del 1348 (cfr. Archivio di Stato di Venezia, Senato Misti, reg. 24, c. 91v.), il Senato dispose, con una visione anticipatrice della politica economia e sociale della Repubblica, che Venezia iniziasse a provvedere per un suo ripopolamento.

Con le misure straordinarie votate dalla commissione dei sapientes composta da ser Marco Loredan, ser Andrea Erizzo, ser Bernardo Giustinian e da ser Giovanni Sanudo, venne stabilito che chi sarebbe immigrato a Venezia con la propria moglie o con la propria famiglia per due anni, abitando in modo stabile e continuato e pagando tutti gli oneri che il Comune chiedeva ai suoi cittadini avrebbe avuto, al pari dei cittadini della sola Venezia, quei privilegi destinati a chi vi abitava da almeno quindici anni; una decisione che non aveva eguali fino a quel momento. Venne inoltre riconosciuto che tutti quelli che non erano degli artigiani e che facevano qualsiasi altro mestiere, decidendo di abitare a Venezia con la moglie o con la propria famiglia con gli stessi intenti di abitare in modo stabile e continuato, pagando tutti gli oneri che il Comune chiedeva ai suoi cittadini, avrebbero potuto, al pari dei cittadini della sola Venezia, intraprendere da subito delle attività commerciali.

Passata quella brutta stagione e seppelliti i morti, chi era potuto scappare da Venezia dei più nobili e ricchi cittadini tornò a Venezia. Il mercato dei cambi riprese quota, i prezzi delle merci tornarono ai livelli normali, le navi ricominciarono a viaggiare e i vuoti creati negli organi governativi furono nuovamente riempiti (cfr. R.C. Mueller, Aspetti sociali ed economici della peste a Venezia nel Medioevo, in Venezia e la peste 1348/1797, Venezia 1979, pp. 74-76, in particolare a p. 75).

Autore: Marialuisa Bottazzi

Bibliografia:

G. Boccaccio, Decameron, Introduzione.tematiche-decameron-la-peste-4541.html

Tucidide, libro II, 47-54 https://laguerradelpeloponneso.wordpress.com/libro-ii/i passi 47-54.